Zelensky aveva già scandalizzato quando si era fatto fotografare su Vogue America, perché l’etica viene quasi sempre confusa con il moralismo dai bacchettoni che si ergono a difesa dei valori e del perbenismo, purché astratti e quindi generici, applicabili a tutti quei casi per i quali alzare un sopracciglio non comporta poi grande fatica: lo stesso tipo di pigrizia ha colto molti commentatori alla notizia che il presidente dell’Ucraina parteciperà con un collegamento da remoto al Festival di Sanremo.

Zelensky va bene sul Nyt ma non su Vogue? Da Bruno Vespa ma non a Sanremo?
Ci si sofferma a leggere una pagina a sinistra del Corriere della Sera sugli orrori della guerra, avendo a destra una meravigliosa pubblicità di una borsa di Prada, perché la vita è così: si ride e si piange, qualcuno nasce e qualcuno muore, nel corso di una giornata si è preoccupati ma anche spensierati, si consuma a gogò ma siamo a volte infastiditi dalla mercificazione che ci strangola. È la vita stessa che proclama che nell’informazione non esistono “contesti” adatti per una cosa e sconvenienti per un’altra. Le foto di Zelensky e sua moglie vanno bene per il New York Times ma non per Vogue? Prada, allora, solo su Vogue? Va bene parlare della guerra da Bruno Vespa ma non al Festival di Sanremo? Semmai vale il contrario: un messaggio è tanto più dirompente quanto più inaspettato è il modo o il mezzo scelto per divulgarlo. Usare i budget dei grandi investitori per fare educazione civica, contro il razzismo o per la protezione dell’ambiente, invece di dissiparli in inutili informazioni sui prodotti, è l’utopia dei pubblicitari impegnati, perché è il nostro cervello che seleziona le notizie, siamo noi al centro dei flussi della vita, delle nostre emozioni, delle nostre capacità di elaborarle.
Il suo modo di comunicare è l’unico sprazzo di modernità in questa guerra vecchia e arrugginita
Zelensky sceglie ogni mezzo per dialogare e fa bene: il tono accorato della sua comunicazione si scontra con la vigilanza moralistica di chi, criticandolo per i suoi interventi a Cannes, a Venezia e ai Golden Globe o per aver posato davanti all’obbiettivo di Annie Leibovitz, lo vorrebbe isolare, togliendogli l’abilità di disturbare la nostra indifferenza, che preferiamo esercitare quando gli argomenti sono scomodi. Sul terreno simbolico Zelensky vince per aver dato un volto, il suo, a una guerra che avrebbe fatto comodo spersonalizzare, rendendola anonima, una delle tante: lui ha intuito che è il valore emotivo che colpisce il pubblico di massa e ha scelto di metterci la faccia, capendo che non si tratta più soltanto di “far sapere” cosa accade in Ucraina. La sfida è rivolgersi al cuore e all’intelligenza degli uomini, per fermare il massacro. Il fatto che sembri solo, nella lotta impari con il pachiderma russo, aggiunge pathos all’epica del coraggio: il modo di comunicare di Zelensky è l’unico sprazzo di modernità in questa guerra, vecchia e arrugginita come l’idea imperialista che l’ha provocata. Nessuno scandalo se a Sanremo si abbasseranno le luci e per pochi minuti Zelensky si materializzerà davanti agli occhi di chi magari non lo aveva mai visto o non lo aveva mai sentito parlare.

Ma sullo scandaloso infotainment nessuno ha qualcosa da obiettare
Altro discorso è l’infotainment, quello scandalo che sopportiamo tutte le sere in tv in programmi come Striscia la notizia o Le Iene, dove qualunque argomento, anche tra i più drammatici, dalla mafia alla pedofilia, viene spettacolarizzato per bombardare un pubblico inerte e passivo e accontentare lo sponsor, e i cosiddetti giornalisti in collegamento fanno finte interviste rubate con in tasca l’autorizzazione firmata per il rispetto della privacy del pedofilo oppure si presentano con indosso un impermeabile giallo e con uno sturacessi sulla testa: mai sentita nessuna voce, né pura né indignata, levarsi per segnalare in questi casi l’incongruenza del contesto.