La forma dei libri è spesso un indizio di quello che contengono. Quella dei titoli della collana Pietre d’Angolo di Aragno Editore, con l’insolita per quanto non inedita impaginazione double face, è anche il segnale di un approccio culturale. Ogni volume presenta una coppia di autori che se ne stanno nettamente distanziati, anzi agli antipodi, almeno materialmente: per passare da uno all’altro bisogna rovesciare il libro e ripartire a leggere da quello che fino a un attimo prima era il fondo. Così accade per il breve e denso saggio di Federico Capitoni intitolato La quadratura del cerchio: in altri contesti editoriali sarebbe stato la classica introduzione di un volume dedicato ad alcuni scritti minori di Richard Wagner sul dramma musicale. In questo libro (pag. 94 + 71, 18,00 euro) il lavoro acquista un’autonomia peculiare.

L’eco dell’arte wagneriana nella vita contemporanea
Se da un lato (alla lettera) sono riuniti – sotto il titolo Quella cosa priva di nome – tre interventi wagneriani sull’opera d’arte totale intitolati rispettivamente Sulla finalità dell’opera (1871), Sulla denominazione Musikdrama (1873) e Sul libretto e sulla composizione della musica d’opera (1879), dall’altro lato e a rovescio le riflessioni di Capitoni chiariscono il pensiero wagneriano, ne colgono le contraddizioni ma soprattutto si propongono di “misurare”, se così si può dire, quali siano (se ci sono) la latenza, o il riverbero, o l’eco dell’arte di Wagner nella vita contemporanea. Anche fuori, soprattutto fuori dai palcoscenici della lirica.
Il dualismo tra testo e musica
Il punto di partenza è, inevitabilmente, la questione del rapporto nel dramma musicale fra poesia e suono, ovvero fra il testo con la sua spina dorsale drammaturgica, che racconta una storia da rappresentare, e la musica che lo riveste, e che si configura a sua volta come “testo” di decisiva e preponderante forza espressiva. Un rapporto complicato e spesso conflittuale, che attraverso i secoli ha visto la primazia artistica passare da un elemento all’altro. Una relazione che solo apparentemente Wagner ha risolto assumendosi in toto il compito della “scrittura” nel dramma musicale, sia testuale che sonora. E aggiungendo alle competenze dell’autore, per soprammercato, anche le prerogative oggi affidate a registi, scenografi, costumisti, light designer. Risoluzione apparente perché – a prescindere da quel che si pensa dei drammi musicali dell’autore tedesco – egli ha finito per teorizzare la supremazia del linguaggio dei suoni. E i 140 anni trascorsi dalla sua morte non hanno davvero conosciuto un effettivo e definitivo superamento del dualismo originario del cosiddetto teatro per musica. Dualismo che permane in forme diverse, bizzarre, anche ambigue.

Le epifanie e le metamorfosi della dottrina wagneriana fuori dal palcoscenico
Lo vede bene Capitoni, che offre peraltro le notazioni più interessanti quando analizza le metamorfosi e le epifanie della dottrina wagneriana fuori dal palcoscenico, estrema propaggine della presenza sempre incombente di questo artista nell’arte e nella società posteriori a quelle in cui visse. Attraverso il cinema e le sue varie forme espressive, si arriva alle attuali tecnologie video-audio e alla multimedialità, nuove frontiere di una rinnovata idea di totalità nella creatività. Per vari aspetti, quindi, lo studioso romano si inoltra in territori ancora poco esplorati dell’esegesi wagneriana, alieni dall’approccio politico di Theodor Adorno, citato solo di sfuggita forse (e giustamente) per tenersi alla larga dalle radicalizzazioni ideologiche. Se il filosofo tedesco aveva capito che la tecnica del leitmotiv – i motivi ricorrenti che sono una degli architravi dei drammi musicali wagneriani – era confluita direttamente nella musica da film, Capitoni da parte sua apre il discorso sul ruolo che Wagner continua ad avere nell’era del post post-moderno. In fondo confermando quanto aveva sottolineato già Mario Bortolotto nel chiosare il saggio di Adorno: l’opera d’arte totale (Gesamtkunstwerk) è fallace, destinata al fallimento, a generare il negativo musicale. Ed è certamente suggestivo (e sorprendente) scoprire una qualche rigenerazione contemporanea di questo negativo nella società multimediale e specialmente nell’universo dei videogiochi, come suggerisce Capitoni.
Il destino dell’opera d’arte totale nel XXI secolo
Il discorso è condotto con molta sottigliezza e notevole densità speculativa: lo stile è diverso da quello accattivante e comunicativo, da divulgatore colto, capace di raccontare come pochi il XX secolo della musica, messo in mostra in Canone boreale. 100 opere del Novecento musicale (Jaca Book, 2018). Ma l’argomento consente poche uscite dall’analisi teoretica. E poi, Capitoni, con sprezzatura degna di nota, ritorna al punto di partenza – l’incontro-scontro fra poeta e musicista nel dare vita all’opera – in una sorta di ironica e brillante appendice librettistica al suo saggio. Si tratta di una vera e propria scena d’opera con tanto di recitativi, Arie e numeri chiusi assortiti, compresa una “sceneggiata rap” di piena attualità, intitolata S.I.A.E. – Singspiel Italiano Artisti Egocentrici. L’azione si svolge all’ingresso della sede della Siae (quella vera: Società italiana autori editori) in via della Letteratura a Roma. Due dei protagonisti litigano sulla spartizione dei diritti dell’opera che stanno andando a depositare: si chiamano, vedi caso, Amedeo (il compositore, che pretende quasi tutto) e Lorenzo (il librettista, che rifiuta l’iniqua spartizione proposta dall’altro). Ben presto arriva una regista di nome Emma (ogni allusione non è affatto casuale…) a reclamare la parte spettante a chi nel realizzare una moderna rappresentazione operistica afferma un ruolo creativo. Interviene infine a tagliar corto (e a mettere tutti nel sacco) lo scaltro Riccardo, che si presenta con un “Ottonario volante” di polverosa tradizione: «Il mio nome è Riccardo/Sono musico e bardo/Del teatro sono un dio/Dacché scrivo tutto io». La conclusione è un hashtag. “#totalartclub: grande schermo, musica dal vivo, sala da ballo, eventi, incontri con gli autori, video-art gallery, 3D experience, bookshop, centro yoga…”. E chi più ne ha più ne metta, “sfumando e aggiungendo ad libitum”, come dice la didascalia da libretto vecchio stile di Federico Capitoni. Che sia questo il destino dell’opera d’arte totale nel XXI secolo?