Wagner è ancora sul Ring

Cesare Galla
22/05/2021

Il 22 maggio 1813 nasceva a Lipsia il grande compositore, fonte di ispirazione e divisioni: dalla politica al cinema fino alla cultura pop. Nell'ultimo libro del critico Alex Ross, la mappa di un fenomeno sorprendente e senza eguali.

Wagner è ancora sul Ring

Uno dei pezzi più famosi di Richard Wagner, la Cavalcata delle Valchirie, accomuna due film americani molto importanti e molto distanti fra loro, Nascita di una nazione di David W. Griffith (1915), e Apocalypse Now di Francis Ford Coppola (1979). In quest’ultimo, uno dei momenti-clou è la scena in cui gli elicotteri del tenente colonnello Kilgore distruggono un villaggio vietnamita sulle note della Cavalcata, mentre assai meno noto è il fatto che la stessa musica fosse prevista in un passaggio cruciale dell’opera di Griffith, lavoro fondamentale del cinema muto. Accadeva quando una pattuglia di cavalieri incappucciati del Ku Klux Klan si lancia al galoppo in un paese del Sud degli States, per liberarlo dalla “dominazione afro-americana” (la vicenda è ambientata durante la guerra di Secessione). In occasione delle prime proiezioni a Los Angeles, un’orchestra di 50 elementi eseguiva dal vivo la grandiosa pagina sinfonica. La stessa musica, dunque, con la sua carica di retorica epica ed evocazione guerresca in chiave fantastica, da un lato era usata per accentuare la narrazione violenta e razzista del film di Griffith – del resto intriso di ideologia suprematista bianca – e dall’altro ha costituito uno degli elementi più efficaci di critica al conflitto americano in Vietnam da parte della pellicola di Coppola. Tanto da essere entrata con un ruolo primario nell’immaginario mediatico contemporaneo a proposito di quei tragici eventi.

La vita della Cavalcata di Wagner fuori dalle scene operestiche

Quelle note “sintomatiche”, d’altra parte, hanno avuto fuori dalle scene operistiche un destino esemplare per capire cosa si intende per wagnerismo e quanto complesso sia il discorso: la Cavalcata era frequente nei concerti “patriottici” diretti negli Stati Uniti durante la guerra da Arturo Toscanini (le Valchirie come metafora delle fortezze volanti che mettevano a ferro e fuoco la Germania) e sarebbe finita – per restare al cinema – sia nei cartoni animati di Bugs Bunny come pure nell’ironica parodia nazista inscenata all’interno dei Blues Brothers di John Landis.

Alex Ross illustra l’eredità di Wagner su arte, politica e costume

Questi sono solo alcuni tasselli del vastissimo e intrigante puzzle wagneriano messo insieme da Alex Ross, critico del prestigioso settimanale The New Yorker e divulgatore musicale di assoluto livello (Il resto è rumore – Ascoltando il XX secolo, appassionante e dotta ma sempre leggibilissima esplorazione della musica nel Novecento, ha avuto in Italia due edizioni). Il suo libro più recente, uscito negli Stati Uniti e in Inghilterra lo scorso autunno e sperabilmente destinato presto alla traduzione italiana (la versione originale si può acquistare on line ed esiste naturalmente anche il formato e-book) s’intitola Wagnerism – Art and politics in the shadow of music. Non è una monografia sull’autore del Tristano, nato il 22 maggio di 208 anni fa, anche se il discorso porta naturalmente ad ampi approfondimenti sulle sue opere, ma un’enciclopedica ricognizione sulla sua eredità. Ovvero sulla pervasiva, contradditoria, divisiva, talvolta deteriore e talvolta straordinaria, ma comunque incontestabile influenza avuta da questo autore e dai suoi drammi musicali sull’arte, la politica e il costume, la letteratura e la storia, a partire dalla scelta dello stesso musicista di realizzare a Bayreuth la capitale mondiale del suo “culto”. Che tale rimane 145 anni dopo il primo Ring.

Wagnerismi nell'arte e nella politica
Il libro del critico statunitense Alex Ross.

Wagner esaltato e strumentalizzato dal nazismo ma anche amato dalle grandi democrazie

Il viaggio comincia da Nietzsche, primo esaltatore e primo affossatore del fenomeno Wagner, e arriva praticamente ai giorni nostri svelando wagnerismi inattesi o addirittura insospettabili a fianco di quello notori e conclamati. E mette un punto fermo su questioni storiche e politiche che proiettano un’ombra inquietante dal cuore del Novecento fino ai giorni nostri. Perché nessun musicista ha avuto come Wagner il destino di essere impugnato come vessillo di ideologie politiche e trasformato – a torto o a ragione – in simbolo e quasi “colonna sonora” per pagine terribili della storia come il totalitarismo nazista. In realtà, dalla minuziosa analisi di Ross emerge con tutta evidenza l’assoluta, contradditoria e ambigua fluidità della “ricezione”: Wagner è stato esaltato e strumentalizzato da regimi feroci come il nazismo ma anche amato, talvolta idolatrato in Paesi di sicura democrazia (gli Stati Uniti, l’Inghilterra o la Francia). Il fatto che fosse egli stesso un orrendo antisemita (il suo saggio Del giudaismo in musica è semplicemente terribile) non ha impedito al fondatore del sionismo, Theodor Herzl, di adorare il suo Tannhäuser, ma dopo la guerra gli ebrei sopravvissuti all’Olocausto hanno decretato il bando di fatto di Wagner dalle esecuzioni in Israele, nonostante le più accurate ricerche storiche – citate da Ross – abbiano dimostrato che in realtà la musica wagneriana risuonava raramente nei campi di sterminio, al contrario di quello che spesso è stato tramandato.

L'eredita discussa di Wagner nel 900
Winifred Wagner, nuora del compositore, con il figlio Wieland e Adolf Hitler nel giardino della casa di famiglia a Bayreuth, nel luglio del 1938 (Getty Images).

L’influenza wagneriana su Beaudelaire, Dalì, Joyce, T.S Eliot e Woolf

Il percorso disegnato da Ross è cronologico e permette di cogliere bene l’ampiezza dell’influenza wagneriana. Ne fecero un totem culturale Baudelaire e i preraffaelliti, ovviamente il Decadentismo, ma anche il Simbolismo e il Surrealismo (un wagneriano doc era Salvador Dalì: nel suo castello di Púbol realizzò una fontana decorata con 14 teste colorate del compositore, tante quante le sue opere); il modernismo letterario sofisticato di James Joyce, di T.S. Eliot e di Virginia Woolf gli deve comunque molto. Fra i “devoti” in ambigua posizione critica non mancano gli esponenti dell’avanguardia pittorica, specialmente quella tedesca, da Joseph Beuys ad Anselm Kiefer, autore di una serie di giganteschi e spiazzanti dipinti su Parsifal.

Le tracce di Wagner nella cultura e arte del 900
Salvador Dalì era un wagneriano doc (Getty Images).

La presenza di Wagner nella cultura mainstream: da Tolkien a Guerre Stellari

Notevole in particolare la parte del libro in cui viene disegnata una sorta di “mappa” della presenza di Wagner nella cultura fra le due guerre e quindi nel “mainstream” degli ultimi decenni, tra fantasy, pop e post-moderno. Dall’influsso evidente nelle opere di Tolkien (Il signore degli Anelli) e Lewis (Le cronache di Narnia), alle visionarie invenzioni distopiche o fantascientifiche di Philip L. Dick (fanatico estimatore in particolare di Parsifal), all’adozione delle tecniche musicali wagneriane nelle colonne sonore della saga di Guerre Stellari. Se già la caratteristica narrazione di questa “serie” di enorme successo riconduce alla mitologica e ancestrale opposizione fra potere e giustizia del Ring wagneriano, le musiche firmate da John Williams completano e irrobustiscono il quadro, costruite come sono su una sessantina di leitmotiv che hanno una vera e propria funzione drammaturgica, non diversamente da quanto accade nei drammi musicali. Il punto di arrivo del percorso di Ross è nell’attualità americana. E così si scopre che uno dei leader della alt-right Usa, Richard Spencer, ha vagheggiato di spendere milioni di dollari, se fosse diventato ministro della Cultura, per la rappresentazione delle opere di Wagner, viste come sintesi epica e mitologica di un auspicato “nazionalismo bianco” di chiara impronta razzista. Che una simile “interpretazione” – postilla Ross – possa trovare sviluppi concreti appare poco probabile. Risulta che una sola volta, negli Anni 80, Donald Trump si sia fatto indurre ad assistere a uno spettacolo wagneriano alla Metropolitan Opera di New York. Alla fine il suo commento, raccolto dalla direttrice di Vanity Fair è stato lapidario: «Never again!».