È immersa in un curatissimo giardino, adagiato su un promontorio da cui si godono scorci incantati del Lago di Como, la clinica dove sono ricoverato da un periodo indeterminato, che non riesco a quantificare. Mi dicono che è stato qui in degenza perfino 007, anche se io so benissimo che non è possibile, perché James Bond è un personaggio di fantasia e non vedo come possa essere stato qui nella vita reale. Ieri però anche mio fratello Andrea, arrivato a bordo di un motoscafo di legno, perché la clinica si raggiunge solo via lago, ha insistito con questa storia, mentre mi porgeva due libri di Ian Fleming dalla copertina nera, legati tra loro con una cinghia di pelle, intitolati Casino Royale e Vivi e Lascia Morire. Dice che leggere mi faccia bene, e in definitiva credo abbia piuttosto ragione, più che altro perché le giornate qui alla clinica si ripetono tutte, identiche, una dopo l’altra, e un po’ di distrazione aiuta. I libri non sono male, anche se sinceramente c’entrano ben poco con i film di 007 che da piccolo guardavo con mio padre.
Viene tutti i giorni Priscilla, senza di lei non saprei proprio come fare, è diventata la mia unica ragione di vita in questo ultimo periodo, ma probabilmente era così anche prima se ho deciso di sposarla
La lettura di Casino Royale mi ha riportato alla mente una personalissima madeleine dell’infanzia e di colpo mi sono ricordato di come, attraverso quei film, i miei occhi di bambino osservavano sognanti mio padre, che all’epoca potevo tranquillamente equiparare a Dio, mentre lo paragonavo al James Bond in carne ossa, nei panni di un super fighetto Sean Connery. Saranno state le macchine veloci, gli abiti di alta sartoria, le scarpe inglesi o gli orologi costosi che il mio vecchio portava al polso ma, nella mia mente di moccioso, mi figuravo una serie di storie fantastiche. Così d’improvviso mi immaginavo che durante i suoi molteplici viaggi d’affari, una volta a Venezia, una volta a Parigi, una volta a Beirut, a New York o alle Bahamas, in realtà mio padre fosse in missione segreta al servizio di sua maestà, mandato per combattere cattivi spietati e notevolissimi. Questo lo ricordo bene. Dopo l’incidente in effetti mi si è piegato leggermente il cervello e ho un po’ di confusione in testa, alcune cose le ricordo perfettamente, altre invece le ho scordate completamente. O almeno questo è quello che mi dicono i dottori e su cui insiste tremendamente mia moglie Priscilla che questa mattina mi ha portato da casa una scatola piena zeppa di fotografie su cui abbiamo dibattuto a lungo insieme alla solita mazzetta di quotidiani che non mi fa mai mancare. Viene tutti i giorni Priscilla, senza di lei non saprei proprio come fare, è diventata la mia unica ragione di vita in questo ultimo periodo, ma probabilmente era così anche prima se ho deciso di sposarla, anche se a dire il vero del giorno del matrimonio ricordo poco e nulla, come se nella mia testa ci fosse una linea oltre la quale la mia mente si rifiuta di andare.

Quello che so è che mi chiamo Stefano Frateff-Gianni, so che dopo essere stato espulso dal Collège et Lycée Saint-Charles in Svizzera per “cattiva condotta” ho iniziato a fare il modello per Cerutti all’età di 18 anni, diventando in breve tempo una autentica superstar, il che ha significato diversi contratti milionari, cifre impensabili all’epoca, per un uomo. Durante gli Anni 80 sono stato per un periodo il modello più pagato al mondo perché avevo la faccia più bella, il look più ricercato, un corpo perfetto. E se guardo le foto che mi ha portato Priscilla non stento a crederci mentre mi osservo sotto la pioggia a Londra con indosso un impermeabile blu di Burberry o mentre gioco a pallavolo su una spiaggia di Cap D’Antibes o nell’atrio dell’Hotel Carlton di Cannes all’alba in smoking e con una sigaretta penzolante tra le labbra o, ancora, mentre sono addormentato sugli enormi sedili del Concorde, con un enorme cappotto cammello.
Si chiamava Virgil Abloh e se non erro dovrei averlo anche conosciuto una ventina d’anni fa quando il capo, incuriosito dalla streetwear, mi mandò in giro per l’Europa a osservare i giovani
Ciò che mi rovinò furono una serie di investimenti sbagliati in ristoranti fallimentari, in cavalli e nell’acquisto sconsiderato di uno yacht mega galattico molto cafone che tenevo ormeggiato a Portofino e che avevano chiamato Animal Boy. Oltre a fiumi di cocaina, ovviamente, ma è un argomento che preferirei tralasciare. Se si cercano in Rete notizie su di me si trova solo qualcosa riguardo alla mia assunzione alla Giorgio Armani Spa. La mia famiglia è molto potente e probabilmente hanno assunto qualcuno per far sparire notizie scomode che in qualche modo avrebbero potuto danneggiarmi. Sono sicuramente loro, tra l’altro, che mi hanno ficcato qui dentro, cercando di farmi riprendere, dopo che Priscilla mi ha trovato svenuto in bagno, immerso nel mio stesso vomito, con il cervello esploso. Aneurisma cerebrale dicono, emorragia subaracnoidea, che poi cazzo significa mica ancora l’ho capito, vabbè. Comunque sempre meglio svernare qui, in questa clinica lussuosa affacciata sul lago, che fare la fine di quel ragazzo di cui leggevo oggi sul giornale, scomparso improvvisamente per una forma rara di tumore che lo ha portato via a soli 40 anni. Si chiamava Virgil Abloh, il tipo, e se non erro dovrei averlo anche conosciuto una ventina d’anni fa, appena assunto dalla Giorgio Armani, quando il capo, incuriosito dal fenomeno della streetwear, mi aveva mandato in giro per l’Europa a osservare cosa facevano i giovani, che mode seguivano, i locali che frequentavano e compagnia bella.
Era dai tempi di Fiorucci e Keith Haring che non si vedevano a Milano alle feste della vera moda ragazzi incappucciati con le mani sporche di spray bere flûte di champagne insieme a direttori di magazine
Londra, Barcellona, Berlino e Brooklyn, soprattutto. L’anno preciso ora non me lo ricordo, ma poteva essere il 2002, al massimo il 2004 e a Milano c’era un luogo, chiamato King-Kong, che diventò un punto di ritrovo fondamentale per chi condivideva una certa visione della città. Questo ragazzo di colore che faceva il dj, ma in realtà era laureato in architettura o forse in ingegneria, aveva qualcosa di diverso da tutti gli altri. Virgil Abloh. Probabilmente era dai tempi di Fiorucci e Keith Haring che non si vedevano a Milano alle feste della vera moda dei ragazzi incappucciati con le mani sporche di spray bere flûte di champagne insieme a direttori di magazine, mentre nei cessi i loro compagni di crew spaccavano di tag i muri, e talvolta la sicurezza allontanava qualcuno di loro perché troppo molesto. Erano anni in cui la venerazione per Margiela era ai massimi livelli e questi giovani come attitudine gli si avvicinavano molto. Il capo voleva capire le dinamiche, saperne di più e ancora una volta posso dire che aveva avuto ragione, perché infatti Abloh pochi anni dopo diventò il direttore creativo di Louis Vuitton e oggi è considerato uno degli uomini che maggiormente negli ultimi 20 anni hanno influenzato, sconvolgendolo, il mondo della moda. Con la sua estetica rivoluzionaria che, a partire dagli abiti, mostrava una tensione continua verso qualcosa di più libero e di più inclusivo, in cui lo streetwear, inteso come punto di rottura rispetto alla rigidità delle tradizioni, si faceva espressione artistica pulsante e dinamica. Un genio insomma come in giro ce ne sono pochi. Un genio che però se ne è andato l’altra notte, così, di botto, e che non ha avuto la possibilità, come invece è capitato a me, di provare a ricominciare.