Incontri, strette di mano, promesse sussurrate, indiscrezioni sempre più dettagliate. Il pressing degli Stati Uniti per convincere l’Italia a smarcarsi dalla Cina è sempre più chiaro ed evidente. E sarà ancora più forte da qui ai prossimi mesi, quando Washington potrà contare, in pianta stabile, sull’ultimo jolly calato sul tavolo: l’ambasciatore statunitense a Roma, Jack Alan Markell. Il compito principale di Markell, amico fidato e consigliere di Joe Biden, consisterebbe nel blindare il partner italiano da qualsiasi accordo geopolitico o penetrazione economica sensibile proveniente da Pechino. Si vocifera, addirittura, che il piano Usa consisterebbe nello sganciare l’Italia dalla Repubblica Popolare Cinese, cestinando il Memorandum of Understanding (MoU) relativo alla Belt and Road Initiative (BRI), salvo poi, una volta incassato l’ok del governo italiano di rinunciare al suo rinnovo, organizzare il primo viaggio di Giorgia Meloni negli Stati Uniti. Agli occhi di Washington, l’Italia si sta dimostrando una fedele alleata per quanto riguarda il dossier ucraino, ma resta ancora l’unico Paese del G7 ad essersi avventurato lungo la Via della Seta. Il timore di Biden è che Meloni non stracci l’accordo sulla Bri, preferendo, semmai, optare per una exit strategy morbida.

Il concetto di mianzi e il difficile equilibrio tra Cina, Italia e Usa
In tal caso, Roma potrebbe sì uscire dalla Via della Seta – per altro senza di fatto neppure averla mai sfruttata – ma cercando di non irritare troppo Xi Jinping, proponendogli magari un accordo commerciale alternativo, prettamente economico e meno delicato della BRI. Un’accortezza del genere, a fronte di uno scenario nel quale l’Italia deciderebbe di non rinnovare il MoU con la Cina, sarebbe auspicabile, visto e considerando l’importanza del concetto di mianzi nella cultura cinese. Questo termine, banalmente tradotto come “faccia” o “reputazione”, indica la reputazione che un individuo si è costruito all’interno di una comunità. Secondo la filosofia confuciana, la mianzi è fondamentale in ogni relazione personale, sia familiare sia professionale. Ebbene, ogni persona ha il dovere morale di conservare la propria “faccia” e quella degli altri. Detto questo, il governo italiano, sempre ammesso e non concesso che voglia davvero abbandonare la BRI, dovrebbe fare un passo indietro cercando di non danneggiare la mianzi di Xi, visto che la Nuova Via della Seta è un progetto lanciato dal presidente cinese in persona. Più in generale, nessuno intende perdere la faccia. Non Meloni che, se percepita troppo morbida con la Cina, rischia di appannare la propria immagine agli occhi degli Stati Uniti; non Biden, che non ha alcuna intenzione di affidarsi a partner capaci di mettere in discussione, in modo plateale, l’approccio da adottare con Pechino; e, ovviamente, neppure Xi.

Le rassicurazioni di Meloni agli Stati Uniti e gli ‘strappi’ di Parigi e Berlino
Nel frattempo, in attesa di capire quale sarà la mossa italiana, Meloni ha fatto tutto il possibile per compiacere gli Usa, tra cui rafforzare le relazioni con l’India, rivale storico di Pechino, ed esprimere vicinanza a Taiwan, provocando una certa irritazione nell’ambasciata cinese in Italia. La premier ha quindi incontrato, a Roma, il presidente della Camera degli Stati Uniti, Kevin McCarthy, comunicandogli, secondo quanto rivelato da Bloomberg, che il governo italiano sarebbe favorevole a ritirarsi dalla Bri, nonostante non si sia ancora presa una decisione definitiva. Il contratto di partecipazione si rinnoverà tacitamente nel marzo 2024, salvo adozione della procedura di recesso, da attivare entro dicembre 2023. In tutto questo l’Italia, come gran parte dell’Europa, è intrappolata tra le crescenti tensioni tra Stati Uniti e Cina. Come se non bastasse, diverse nazioni europee intendono mantenere legami commerciali e di investimento con la Cina (Germania e Francia), pur restando fieramente nell’alveo atlantista. Il presidente francese Emmanuel Macron e il cancelliere tedesco Olaf Scholz, ad esempio, sono già volati a Pechino per tutelare i rispettivi interessi nazionali. Meloni, pur essendo stata invitata da Xi durante l’ultimo G20 di Bali, non ha ancora messo piede oltre la Muraglia. Tutto è in stand by, in attesa che l’esecutivo italiano metta a punto una sorta di road map in gradi di scontentare il meno possibile statunitensi e cinesi, e, al tempo stesso, scongiurare conseguenze nefaste all’Italia.

Gli investimenti in Italia relativi alla BRI sono scesi da 2,51 miliardi di dollari nel 2019 a 33 milioni nel 2021
Uscire dalla Via della Seta potrà essere semplice – basta d’altronde non rinnovare il MoU – ma non necessariamente indolore. Pechino ha sottolineato che Cina e Italia, dalla firma dell’accordo in poi, hanno assistito a una «fruttuosa cooperazione» nel commercio, nella produzione e nell’energia pulita. «Le due parti dovrebbero sfruttare ulteriormente il potenziale della cooperazione della BRI e intensificare una cooperazione reciprocamente vantaggiosa su tutta la linea», ha aggiunto il portavoce del ministero degli Esteri, Wang Wenbin, durante una conferenza stampa. Reuters, intanto, ha scritto che l’Italia non prenderà una decisione formale prima del vertice del Gruppo dei Sette, previsto il prossimo 19 maggio in Giappone, aggiungendo che si tratta di un argomento molto delicato. I consiglieri diplomatici di Meloni, vociferano i media statunitensi, starebbero ancora discutendo sui dettagli e sui tempi di una possibile decisione, temendo ritorsioni economiche da parte della Cina. L’imperativo assoluto è tuttavia uno: evitare lo strappo diplomatico con Pechino. Che, dal canto suo, con l’uscita italiana dalla Via della Seta, potrebbe rispondere utilizzando le armi del commercio e del turismo. Limitando lo spazio d’azione delle aziende italiane nel mercato cinese e dirottando, in vista del futuro, i propri turisti – amanti del lusso e del made in Italy – verso altri Paesi europei. Nel 2019, quando Roma aderì all’iniziativa infrastrutturale di Pechino, si nutrivano grandi speranze economiche. A distanza di quattro anni, ha sottolineato il South China Morning Post, quel coinvolgimento potrebbe finire presto, in parte a causa della mancanza di risultati e in parte per via delle maggiori tensioni all’interno dell’Unione europea. Numeri alla mano, secondo i dati del Green Finance and Development Center dell’Università di Fudan, gli investimenti relativi alla BRI in Italia sono scesi da 2,51 miliardi di dollari nel 2019 a 810 milioni nel 2020. Più in generale, ha fatto notare il Rhodium Group, gli investimenti diretti esteri (IDE) cinesi completati in Italia sono scesi da 650 milioni di dollari nel 2019 a 20 milioni di dollari nel 2020 e 33 milioni di dollari nel 2021; briciole, se li confrontiamo con gli 1,9 miliardi di dollari di IDE cinesi in Germania e gli 1,8 miliardi in Francia nel 2020. Se è vero che un ritiro italiano dalla BRI potrebbe facilitare la cooperazione con Taiwan – è caldissimo il dossier dei semiconduttori – è altrettanto vero che i guadagni complessivi derivanti da ipotetici nuovi partner potrebbero non compensare le eventuali perdite che rischiano di verificarsi nel commercio bilaterale tra Cina e Italia. Nel 2022, le esportazioni italiane in Cina hanno toccato quota 16,4 miliardi di dollari, in aumento rispetto ai 13 miliardi del 2019; nello stesso lasso di tempo, le importazioni cinesi dall’Italia sono salite a 57,5 miliardi da 31,7 miliardi. Numeri inferiori alle aspettative ma pur sempre importanti.