Via dalla Seta

Accordi per 2,5 miliardi. Investimenti in porti e hub logistici. Partecipazioni societarie. Cosa resta del memorandum firmato con Pechino dai governi Conte e di fatto rinnegato da Draghi.

Via dalla Seta

È arduo calare le grandi questioni geopolitiche globali nell’orticello italiano, ma è chiaro che suona come l’ennesimo ribaltamento rispetto alle linee d’azione dei governi Conte quel «lo esamineremo con attenzione» pronunciato da Mario Draghi in Cornovaglia e riferito al memorandum sulla Nuova Via della seta del 2019. Se non è un de profundis, insomma, poco ci manca. Certo, nel frattempo è cambiato il mondo. È arrivato il Covid, con la Cina che in sede di G7 è tornata sul banco degli imputati rispetto a certe presunte opacità sulle origini del virus. E c’è stato il cambio della guardia, con una fortissima discontinuità, nello studio ovale della Casa Bianca.

Build Back Better World, la risposta Usa alla Via della Seta

La sfida lanciata da Joe Biden a Pechino è stata in sostanza sposata dalle altre sei potenze del club, seppur con sfumature e distinguo. Non solo e non tanto sulla questione del rispetto dei diritti umani da parte del Dragone nello Xinjiang e a Hong Kong, ma soprattutto sul progetto di una concreta alternativa economica e infrastrutturale alla Via della seta che gli americani hanno chiamato Build Back Better World (B3W). Il premier italiano, sulle sponde dell’Inghilterra sud occidentale, si è confermato alfiere dell’euro-atlantismo e soprattutto non ha avuto peli sulla lingua circa i dossier cinesi. Eppure, appena due anni fa, nel marzo 2019, l’Italia era stata il solo Paese del G7 a firmare con Pechino la Belt and Road Initiative. Un negoziato, va detto, cominciato nel 2017 dall’allora premier Paolo Gentiloni, a sua volta unico capo di governo dei Sette Grandi a partecipare al primo Belt & Road Forum. Ne era scaturito un rinnovato interesse del Dragone per l’Italia: il Silk Road Fund aveva infatti rilevato il 5% del capitale di Aspi da Atlantia e si era unito a ChemChina che dal 2015 era azionista in Pirelli (poi la separazione con il 9 per cento delle quote rimasto in mano al fondo). Inoltre i cinesi si erano subito interessati, con il colosso dello shipping Cosco, ai porti di Trieste e Genova (sul secondo c’è poi stato un parziale ripensamento) quali snodi di transito dalla Grecia e dal Mediterraneo verso il cuore dell’Europa. Ma il Nord Italia, nei progetti di Pechino, era e sarebbe un perfetto hub logistico: ecco perché la stessa Cosco aveva comprato il 40 per cento del nuovo terminal container di Vado Ligure.

cosa resta del memorandum Italia cina
Luigi Di Maio con il presidente cinese Xi Jinping a Shanghai nel 2019 (Getty Images).

Il memorandum con Pechino e la presa di distanza da parte di Salvini

Dopo Gentiloni venne il turno dell’esecutivo gialloverde e l’allora ministro dello Sviluppo economico, Luigi Di Maio, fu il raggiante king maker delle tre intese sul commercio elettronico e sulle start-up firmate in occasione della visita in Italia del presidente della Repubblica popolare Xi Jinping. Complessivamente, gli accordi erano 29, tra istituzionali e commerciali, e andavano dall’energia all’industria, dalle infrastrutture al settore finanziario per un valore di 2,5 miliardi, con lo scopo di promuovere il rafforzamento delle relazioni tra i due Paesi. Malgrado il memorandum non avesse valore di accordo internazionale e, dunque, non comportasse impegni giuridicamente vincolanti, le polemiche che si scatenarono furono feroci. Si paventò che saremmo diventati una colonia di Pechino, scattò l’allarme circa possibili intenti predatori della Cina sul 5G, l’America di Trump mandò segnali tutt’altro che concilianti e dalla Ue si accusò la compagine gialloverde di mettere a repentaglio la nostra collocazione euroatlantica e di trasformare l’Italia nel ventre molle attraverso cui il gigante asiatico poteva invadere l’Europa. Giuseppe Conte, allora premier, non fece alcun passo indietro: «Dobbiamo essere in grado di costruire una partnership con Pechino basata sull’uguaglianza senza deviare un passo dai nostri valori e principi, senza mettere in discussione i nostri legami, le nostre norme e le nostre alleanze storiche». Tuttavia, l’impronta M5s sull’iniziativa fu ancor più evidente quando alle perplessità internazionali si aggiunse il gelo del compagno di governo, ossia la Lega. Matteo Salvini, che era già in piena frizione con i cinquestelle su molti fronti, disse tra l’altro: «Per me è più importante la sicurezza nazionale». Sul versante delle imprese, invece, il 13 marzo 2019 il direttore generale di Confindustria, Marcella Panucci, in un’intervista a Formiche definì la via della Seta un’opportunità ma «a patto che il tutto sia gestito con grande attenzione a tutti gli aspetti che caratterizzano questa complessa fase delle relazioni internazionali».

L’Intesa Ue-Cina congelata da sanzioni e contro-sanzioni

In effetti, malgrado la spinta in tal senso della Germania, non è mai decollata una piena intesa Ue-Cina che stabilisca reciprocità su investimenti o accesso al mercato e norme condivise su lavoro, salute e clima. Il Comprehensive Agreement on Investment (Cai), siglato lontano dai riflettori il 30 dicembre scorso, è stato subito azzoppato dalla guerra di sanzioni e contro-sanzioni tra Bruxelles e Pechino. L’Unione europea ha cercato di colpire il Dragone per le violazioni dei diritti umani contro gli uiguri musulmani dello Xinjiang e il gigante asiatico ha risposto con misure contro eurodeputati, parlamentari nazionali e centri di studio e ricerca del Vecchio Continente.

cosa resta della via della seta
Giuseppe Conte al summit del G20 a Osaka nel 2019 (getty Images).

Il M5s insiste sulla via della Seta

Con Draghi il vento è cambiato, ma il M5s continua a rivendicare le scelte geostrategiche del 2019. Lo stesso Luigi di Maio, su La Stampa, ha commentato: «Mi limito a osservare che i dati dell’export italiano verso quella parte del mondo sono in crescita spaventosa. E vi invito a chiedere alle nostre aziende che cosa ne pensano». Anche Conte ha insistito sulla necessità di rafforzare l’interscambio con Pechino, rispondendo in merito alle polemiche per la visita di Beppe Grillo all’ambasciatore cinese a Roma. E Gianluca Ferrara, senatore M5s della commissione Esteri, a Tag43 ribadisce: «Io francamente non capisco perché Francia e Germania debbano avere un interscambio commerciale con la Cina nettamente maggiore rispetto al nostro. Perché autoinfliggere alle nostre aziende una minor possibilità di esportare, di crescere? Nel 2018 sono stato in Cina con una delegazione parlamentare, abbiamo visitato una delle principali fonti della Nuova Via della seta, da cui partono migliaia di container verso l’Europa. Il nostro obiettivo è riempire il più possibile quei container di made in Italy». Poi rassicura: «La nostra collocazione geopolitica è chiara anche ai cinesi e non abbiamo intenzione di modificarla, il nostro obiettivo è tessere rapporti culturali e, ripeto, proporre la nostra offerta commerciale alla grande domanda cinese. Il tempo della guerra fredda è finito, sarebbe auspicabile liberarsi di una visione anacronistica ed avere un atteggiamento laico. Il mondo è mutato e l’approccio migliore per tutti è quello del multilateralismo». Nella speranza che poi, sul fronte dell’export, all’Italia vada via via meglio di come accadde con la cosiddetta “diplomazia delle arance”. Gli agrumi italiani furono tra i prodotti che avrebbero dovuto aprire in grande stile i nuovi canali di scambio della Via della seta. Purtroppo, nel 2019 le nostre esportazioni di arance in Cina si sono fermate a 162 mila euro, mentre la Spagna ne ha inviate per 32 milioni di euro senza aver siglato alcun accordo. Intanto la Francia, per fare un esempio, ha piazzato a Pechino i suoi airbus e le centrali nucleari. Insomma, non basta un memorandum per riempire i container.