In un futuro non troppo lontano, aprire l’armadio per scegliere l’outfit da indossare per una call su Zoom potrebbe diventare storia vecchia. Con l’avvento del metaverso, infatti, gli utenti avranno la possibilità di accedere a un guardaroba virtuale e costruirsi un look realizzato, dalla testa ai piedi, in 3D. Questo l’obiettivo di numerosi designer e brand che, negli ultimi tempi, stanno pensando di investire capitali sempre più ingenti sulla moda digitale. E non solo quella da ‘lavoro’ ma anche mise casual o eleganti indossabili in una dimensione che spazia dai videogame ai social.
L’incontro tra moda e metaverso
Nella relazione annuale di McKinsey & Company e The Business of Fashion, le aziende leader del settore hanno manifestato un interesse solido verso questa prospettiva. «Il metaverso è in grado di offrire una gamma crescente di mondi paralleli dove poter proporre una versione differente di sé», ha spiegato nel report il direttore del marketing di Gucci Robert Triefus. «Il problema è che questa frontiera è ancora parecchio sottovalutata. Non si comprende ancora il desiderio di esprimersi in un universo virtuale, attraverso un avatar e con capi disegnati al computer». Questo pregiudizio, tuttavia, non avrebbe motivo di esistere. Vestire un personaggio virtuale non è una novità: sin dai primi Anni 2000, infatti, bambini e ragazzi si sono dilettati a creare combinazioni per le loro Dollz o a fare shopping su Animal Crossing. L’industria dei videogiochi ha sempre corteggiato questa tendenza e di recente ha deciso di estenderla anche al fashion system più patinato, invitando marchi del calibro di Louis Vuitton, Dolce & Gabbana, Ralph Lauren e Nike a commercializzare prodotti fatti di pixel attraverso la piattaforma Roblox o gli NFT e consentendo di fatturare cifre inaspettatamente alte su un mercato estraneo al loro pubblico e al di fuori della loro comfort zone.
L’impatto delle sfilate digitali
Con l’avvento della pandemia, poi, gli stilisti sono stati costretti a rinunciare agli eventi in presenza e a ingegnarsi per trovare una soluzione creativa che permettesse di mostrare ai potenziali buyer le nuove collezioni. Ed ecco che, da un momento all’altro, i défilé digital non sono stati più percepiti come eccezioni. È il caso del marchio americano Hanifa che, in uno dei suoi ultimi fashion show, ha rinunciato alle modelle in carne e ossa e le ha sostituite con figure disegnate in Computer-generated imagery (CGI), con indosso giacche, maglie e pantaloni renderizzati in 3D. O i direttori creativi Xu Zhi, Andrea Jiapei Li e Roderic Wong che, in occasione della Shangai Fashion Week, hanno optato per sfilate in realtà aumentata. «Le maison hanno capito che per vendere i loro prodotti nel 2020 avrebbero dovuto mettere in piedi delle vetrine virtuali», ha sottolineato in un’intervista alla CNN Karinna Grant, co-founder del marketplace di NFT The Dematerialised. Un obbligo che ha abituato i consumatori a un’opzione fino a quel momento impensabile e favorito la nascita dei primi e-commerce digitali come Replicant, che consentono all’utente di ‘provare’ i vestiti virtualmente attraverso un manichino o, talvolta, sovrapponendoli a una propria foto.
Tra prezzi accessibili e sostenibilità
Tuttavia c’è chi pone qualche resistenza. Alcuni addetti ai lavori continuano a chiedersi perché sostituire gli indumenti reali con quelli digitali. «Non si parla di annullare o sostituire ma di rendere disponibile una scelta in più», ha spiegato Simon Whitehouse, responsabile dell’agenzia di consulenza Eco Age. Su piattaforme come DressX, l’acquirente trova articoli che, nelle normali boutique non potrebbero esistere o sarebbero complicati da vendere. Come i pezzi di tech couture di Auroboros, che potrebbero richiedere mesi di lavoro a una sarta, senza la sicurezza di ottenere il risultato desiderato. In più, altri due vantaggi da non sottostimare sono il risparmio sugli articoli di lusso, che costano molto meno che nella realtà, e la riduzione degli scarti di produzione e del tasso di inquinamento: «Non si utilizza l’acqua, le emissioni di CO2 sono quasi a zero, non esistono campionari, né showroom», ha ribadito Caitlin Monahan, strategist di WGSN, società specializzata nella previsione dei trend. Forse il passaggio più efficace per rendere la moda un business sostenibile.
I vestiti spariscono, la manodopera rimane
E se l’haute couture sembra ormai già proiettata verso questa nuova era, il pubblico ha bisogno di sicurezze in più per abbracciarla con decisione. «La sfida maggiore sarà convincere le persone a pagare qualcosa che non possono toccare con mano», ha aggiunto Monahan. «Molti non credono sia utile, altri la reputano una truffa». Una resistenza ragionevole che, tuttavia, può essere vinta come già accaduto con parecchie novità nel mondo del fashion: «Solo perché qualcosa non esiste materialmente, non significa che non abbia senso. Dietro a un accessorio o a una mise in 3D c’è comunque tanto lavoro. Ci sono stilisti, artigiani. La manodopera rimane il vero valore aggiunto».