La partenza. C’è da preparare lo zaino per Venezia e sono molto indeciso se optare per un look molto street, che prevede Nike, jeans, felpe con il cappuccio e compagnia bella; oppure opzionare un look più casual che mi obbligherà a dirigermi verso la scelta di una serie di camicie oxford buttown-down BD Baggies, maglioni in cachemire e pantaloni di velluto. Rovisto nell’armadio in cerca di ispirazione quando Ofelia mi spunta alle spalle mentre sono in procinto di ispezionare l’ennesima scatola di pullover che ho tirato giù e messo sul letto.
«Cosa succede?», domando alla fine. «Sai dov’è il mio blazer a tre bottoni?».
«Cosa succede in che senso?», domanda lei, alzando gli occhi al cielo.
«Sono molto indeciso su che look optare per Venice. Di sicuro infilerò la roba nel mio zaino nero da avventuriero, alla Bruce Chatwin».
«Sì, avventuriero come il principe Harry, ma falla finita. E poi stiamo via solo un paio di giorni, mica ti vorrai portare dietro tutto l’armadio?».
«No, amore, solo il mio smoking Commes des Garçons che sono andato a ritirare in tintoria per il party al Danieli. I miei taccuini. I miei Adelphi».
«I tuoi taccuini? I tuoi Adelphi?», chiede Ofelia.
«Sì, hai letto quell’articolo sull’asta di Sotheby’s dei Moleskine ancora incellophanati di Joan Didon, sui biglietti del tram di Hemingway? Sai che lui conservava praticamente tutto? Dai sottobicchieri dei pub, ai fiammiferi degli alberghi, ai biglietti del tram usati. La confusione di casa nostra un giorno si potrà monetizzare tesoro, come è successo con la biblioteca di Philip Roth, ora alla Newark Public Library, conservata dentro teche e display».
«Amore, mi spiace deluderti ma tu non sei Hemingway e nemmeno Philip Roth», attacca, – «Andrea, cosa stai cercando?».
Resto fermo per un attimo, poi guardo l’apple watch e torno verso il letto dove rovisto nel sacchetto Commes des Garçons, ritirato dalla lavanderia, per tirare fuori lo smoking. Distrattamente prendo in mano il cappello a tesa larga blu cobalto di Super Duper, me lo caccio sulla testa e le dico: «Che ne pensi?».
«A Venezia non ci si perde, anzi ci si ritrova sempre al punto di partenza», ho letto in un racconto di Giacomo Giossi. E in effetti il tipo non ha tutti i torti, perché da sempre le nostre giornate veneziane iniziano e finiscono tutte nello stesso posto: da Vino-Vero, enoteca iper-fighetta dove ci sfondiamo con vitoske e malvasie tra le migliori che si possono trovare in circolazione
Ma Ofelia è già andata di là, senza degnare nemmeno di uno sguardo il cappello, così lo tolgo, apro il mio zaino da avventuriero e ci infilo dentro alla rinfusa un paio di maglioni blu di lana grossa, un pigiama e una camicia a righe bianche e azzurre; insieme a un libro di Antonio Scurati, che mi ha consigliato lui stesso l’ultima volta che ci siamo visti, intitolato La seconda mezzanotte. «Se vai a Venezia devi assolutamente leggerlo», mi ha detto. Così l’altro giorno mi sono infilato alla Rizzoli in galleria e l’ho tirato su. È figo il libro di Scurati perché, ambientato in un futuro prossimo nemmeno troppo lontano, racconta una Venezia che, ribattezzata Nova Venezia, dopo essere stata ridotta a un’immensa palude è stata acquistata da una multinazionale cinese, che ne ha fatto un proprio protettorato, consacrato al vizio, alla liberazione degli istinti, al piacere e alla violenza. Piazza San Marco è stata trasformata in un’arena, nella quale si ripetono gli spettacoli gladiatori dell’epoca romana e gli ultimi veneziani superstiti, ai quali tra l’altro è stato vietato di riprodursi, sono confinati un un ghetto, ridotti ai margini della società e trasformati in sguatteri, camerieri, barcaioli, servi, figuranti e spalatori di fango. Una storia che leggendola mi ha ricordato tremendamente un documentario che ho visto su Netflix qualche settimana fa, intitolato I love Venice, che racconta la recente trasformazione della città e l’esodo di massa dei suoi abitanti a fronte dei 30 milioni di visitatori annuali che l’hanno trasformata in un luna park, aperto ventiquattro acca/trecentosessantacinque giorni l’anno.
Cronache veneziane. Il sole splende alto nel cielo e il cielo è terso come poche volte ho avuto il piacere di vedere qui in laguna. Il silenzio invernale di gennaio offre una Venezia rilassata che attende i bagordi del carnevale con placida sonnolenza, interrotta solamente dal suono di qualche pezzo trap, sparato a tutto volume dagli stereo dei regaZ sui barchini, che fanno costantemente avanti e indietro per i canali (come narrato in Atlantide, lo splendido docu-film del video-artista e film-maker Yuri Ancarani). Le loro giornate si risolvono così: elaborando un vero e proprio culto, incentrato sulla elaborazione di motori sempre più potenti, che trasformano i piccoli motoscafi lagunari in pericolosi bolidi da competizione. Avanti e indietro tutto il giorno, fino a sera. «A Venezia non ci si perde, anzi ci si ritrova sempre al punto di partenza», ho letto una volta in un racconto scritto da Giacomo Giossi su Italian Review. E in effetti il tipo non ha tutti i torti, perché da sempre le nostre giornate veneziane con Ofelia iniziano e finiscono tutte nello stesso posto: da Vino-Vero, un’enoteca iper-fighetta che sta in Fondamenta della Misericordia, nel sestriere di Cannaregio, dove a suon di cicchetti ci sfondiamo con delle vitoske o con delle malvasie tra le migliori che si possono trovare in circolazione. Quelle di Skerk o di Zidarich. Non possiamo esagerare però perché il nostro programma di oggi è piuttosto serrato: c’è la mostra di Inge Morath a Palazzo Grimani, l’aperitivo nel negozio Olivetti di Piazza San Marco, l’orienteering serale in versione runner sponsorizzato da Nike in giro per le calli, e la festa al Danieli, organizzata dall’ambasciata Uk per la stampa straniera.

La storia di Inge Morath è parecchio affascinante. La leggenda narra che fu proprio durante una vacanza con il marito in laguna nel 1951, passeggiando per calli e campielli, che scattò il suo amore per la fotografia. La Morath, che già lavorava come segretaria per la celebre agenzia Magnum, come folgorata, si precipitò a comprare macchina e rullino e iniziò, ritraendo la Venezia degli Anni 50, la sua strabiliante carriera. «Ho regolato la fotocamera e premuto il pulsante di scatto non appena ho visto tutto come volevo. È stata una rivelazione. Realizzare in un istante qualcosa che mi era rimasto dentro per così tanto tempo. Dopo di che, non c’è stato più modo di fermarmi». Lo sguardo di Inge Morath, prima fotografa donna della Magnum, nell’anno che celebra il suo centenario, è racchiuso in una splendida mostra che offre complessivamente 200 scatti, tra reportage dal mondo e ritratti, esposta al primo piano di un superbo palazzo nobiliare di quelli che fanno perdere la testa, a due passi da campo Santa Maria Formosa, nel sestriere di Castello. «Si può esplorare Venezia all’infinito», diceva Morath, unico posto al mondo dove puoi andare a vedere una mostra in un palazzo rinascimentale di stupefacente bellezza e due ore più tardi infilarti in un posto completamente diverso, ma altrettanto incredibile, definito dalla critica «uno dei più limpidi capolavori dell’architettura contemporanea». Il negozio Olivetti, progettato da Carlo Scarpa su incarico di Adriano Olivetti, nacque in seguito a una telefonata che lo Steve Jobs di Ivrea fece al celebre architetto veneziano con questa esplicita richiesta: «Vorrei da lei un biglietto da visita dell’Olivetti nella più bella piazza del mondo». Il negozio inaugura così il 26 novembre 1958, sotto i portici delle Procuratie Vecchie, e diventa immediatamente una delle più rappresentative opere di integrazione di un intervento moderno su palazzo storico protetto dai beni culturali.

Entriamo nel negozio con Ofelia e la sua mano è gelata quando afferra la mia, e io guardo il pavimento realizzato con un mosaico composto da tessere in vetro di Murano posizionate in modo volutamente irregolare così da dare la sensazione che ci sia un leggero strato di acqua sulla superficie e penso: «Dio mio qualcuno dovrà passare l’aspirapolvere in eterno qui dentro». Siamo qui per la presentazione di un video documentario realizzato dai miei amici Matteo Demonte e Ciaj Rocchi intitolato La macchina zero sulla storia di Mario Tchou, capo della Divisione Elettronica Olivetti, che ideò il primo computer interamente realizzato con elementi allo stato solido, i transistor. Nel video animato c’è anche la mia voce, poiché doppiandolo ho interpretato la controversa figura di Roberto Olivetti, figlio primogenito di Adriano e di Paola Levi (per chi non lo sapesse sorella di Natalia Ginzburg, che racconta parte della loro storia in uno dei miei libri preferiti di sempre, Lessico famigliare). Alla fine della proiezione sono fuori in Piazza San Marco e sto cercando di accendere una sigaretta su cui qualcuno ha rovesciato una San Pellegrino, sembra che tutti intorno a me indossino costosissimi completi e un paio di tizi stanno parlando della assurda diffusione di marijuana per le strade di Manhattan da cui sono appena tornati. Davanti al negozio Olivetti mi ipnotizzo guardando il mio riflesso nella vetrina e mi perdo osservando una machina da scrivere, Lettera 22, che anni fa avevo ricevuto in regalo da Lucilla per iniziare a scrivere il mio romanzo. Romanzo che poi non ho mai nemmeno cominciato. Lucilla mi disse: «Devi assolutamente scrivere un libro». «Dici sul serio?», mormorai. Era aprile del 2003 e mi ero appena trasferito in via Tiepolo, una micro-mansarda di 15 metri quadri con il bagno sulle scale, Lucilla arrivò un pomeriggio con una Lettera 22 sotto braccio, «era la macchina da scrivere di mio padre», io pensavo, «voglio scoparti ancora». Poi se la riprese anni dopo, e in fondo la cosa non mi dispiacque nemmeno tanto perché oltre a un timido inizio nel quale scrissi la frase “in mani rar” al posto della parola “maniera” la gloriosa macchina da scrivere di suo padre rimase per circa due anni su un ripiano sopra la porta insieme a un sacco di roba vecchia a prendere polvere, abbandonata a se stessa, senza essere mai più utilizzata.

Tre ore più tardi siamo davanti al Danieli per partecipare alla festa dell’ambasciata Uk organizzata per la stampa e un’ondata di vento freddo spazza la folla accalcata davanti all’entrata mentre io e Ofelia oltrepassiamo due tipi con in mano dei walkie-talkie camminando su un sontuoso tappeto viola e verde che porta nella hall all’ingresso. Ofelia indossa un abito Todd Oldham e appena siamo dentro mi sussurra all’orecchio qualcosa che non riesco a sentire. Di colpo come abbiano fatto ad arrivare così in fretta le due di notte è un mistero per tutti. La fine della serata è un’immagine di me che stringo tra le mani un flûte di champagne vuoto e ho la fascia del mio smoking Commes des Garçons arrotolata intorno alla testa. Un taxi poi ci porta al nostro albergo e come ho fatto a non cadere nell’acqua, scendendo dalla barca davanti al nostro hotel, completamente ubriaco, mentre scivolo per terra con la suola troppo liscia delle mie derby è un autentico miracolo. I festeggiamenti per il mio 43esimo compleanno durati esattamente una settimana si possono ritenere ufficialmente conclusi.