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Sono a Venezia a sorseggiare Martini all'Harry's Bar con Ofelia mentre intorno a noi si discute di Fiorello e del palazzo dove ha preso casa. L'arrivo di Arrigo Cipriani però mi riporta indietro nel tempo, a Londra, dove lavorai per lui come barman. Il racconto della settimana.

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Venezia. Oggi. Ho intervistato Gianfranco Calligarich l’estate scorsa per un pezzo uscito sulle gloriose pagine della Cronaca di Roma del Messaggero, in occasione della riedizione che Bompiani ha fatto del suo leggendario romanzo L’ultima estate in città. Una leggenda, alimentata negli anni da un mito sotterraneo, quasi carbonaro, che lo ha reso un vero e proprio oggetto di culto. Conteso da generazioni di lettori, che se lo disputavano tra le bancarelle e i mercatini dell’usato, passandoselo di mano in mano, trascrivendolo e fotocopiandolo, L’ultima estate in città è stato, per chi non lo sapesse, nel panorama letterario italiano un caso editoriale senza precedenti. Ambientato nella Roma dei salotti, delle cene sulle terrazze, popolata da registi, modelle, attrici, da intellettuali alcolizzati, da scrittori che non scrivono, alla Jep Gambardella, il libro narra la deriva esistenziale e geografica di un giovane giornalista, Leo Gazzarra, e di una tormentata storia d’amore con una studentessa di architettura dai lunghi capelli scuri, molto bella, pigra e un po’ smarrita.

 

Mi capita perciò ogni tanto di farmi un giro sul sito di Calligarich, sempre ricco di spunti e suggestioni letterarie notevolissime. È così che questa mattina in treno da Milano per Venezia (mentre Ofelia sfogliava distrattamente un testo di scritti di Simone De Beauvoir trincerata dietro un paio di enormi occhiali da sole da diva del cinema), che mi sono imbattuto in questo interessantissimo stralcio, scritto da una certa Carolina Cutolo, tratto dal romanzo Romanticidio, dedicato al Martini Cocktail. Il re incontrastato di tutti i drink. Con particolare attenzione alla sua variante Hemingway, la cui preparazione è giustamente descritta in tutto e per tutto come la perfetta celebrazione del dettaglio. «Infatti, invece di rispettare la formula tradizionale che prevede otto parti di gin e due di vermouth dry, il Martini Hemingway si prepara solo sciacquando il ghiaccio col vermouth e poi filtrandolo, conservando il ghiaccio bagnato dal vermouth, e aggiungendo il gin, per poi concludere trattenendo il ghiaccio e versando nella coppa martini solo la delicata mistura, guarnita da un’oliva verde». La lettura di questo testo mi ha fatto così venir voglia di bere un buon Martini che sostanzialmente è il motivo per i quale ora siedo con Ofelia ai tavolini di fronte a una finestra affacciata su piazza San Marco dell’Harry’s Bar, forse il locale più famoso del mondo, aperto da Giuseppe Cipriani, rilevando un vecchio negozio di corde abbandonato, nel 1931.

Il fatto che nel palazzo abbia comperato casa Fiorello ha fatto assumere all’affaire ulteriore rilievo. Io francamente di tutta questa questione, Presidente della Repubblica compreso, me ne infischio bellamente, mi limito a sorseggiare il Martini

I discorsi dei clienti questo pomeriggio vertono, oltre all’elezione del nuovo Presidente della Repubblica, sul caso dell’ascensore nel quattrocentesco palazzo gotico al quale perfino il Corsera ha dedicato un articolo. Attorno al caso si è scatenata un’autentica bagarre che ha rinfocolato il dibattito sul futuro di Venezia, sempre divisa tra posizioni più conservatrici sulla tutela dei suoi edifici storici e tra chi invece apre la possibilità a interventi in nome della modernità. Il fatto che nel palazzo poi abbia comperato casa Fiorello ha fatto assumere all’affaire ulteriore rilievo. Io francamente di tutta questa questione, Presidente della Repubblica compreso, me ne infischio bellamente, mi limito a sorseggiare il Martini, chiacchiero con Ofelia mentre osservo con noncuranza la copia delle Lettere di William Burroughs appena pubblicate da Adelphi che ho appoggiato sul tavolo e controllo sull’iPhone la messa in onda in radio della trasmissione che ho registrato settimana scorsa con uno scrittore non più giovanissimo sul suo nuovo romanzo sulla storia delle Brigate Rosse milanesi. In onda c’è un pezzo di MF Doom tratto dall’album Madvillain che il rapper di New York firmò insieme a Madlib e che è in assoluto uno dei miei dischi hip-hop preferiti di sempre. Poi, a un tratto, un uomo distinto piuttosto anziano in doppiopetto grigio si avvicina al nostro tavolo e sento qualcuno esclamare: «Andrea, ciao, cosa ci fai qui?». Prendo fiato, mi tolgo gli Air Pods dalle orecchie e alzo gli occhi con un sorriso navigato. «Oh, ciao», dico, tendendo la mano. È Arrigo Cipriani in persona. «Come mai vi conoscete?», chiede Ofelia, dopo che Arrigo se ne è andato. Ed è quello il momento in cui, prima di rispondere, ordino al cameriere un altro Martini.

Ecco perché conosco Arrigo Cipriani: il racconto della settimana su Venezia e i martini dell'Harry's Bar
L’entrata dell’Harry’s Bar a Venezia.

Quando lavoravo al Cipriani Mayfair di Londra e Arrigo arrivava in ispezione al locale ci diceva sempre: «Servite i clienti come re e i re come clienti». Un motto che ancora oggi, che sto dietro al banco di un bar da oltre 20 anni, mi ricordo ancora e che però sinceramente faccio, nonostante tutto, piuttosto fatica a digerire. Tutto è iniziato a settembre del 2001, il fondo fiduciario che mi aveva lasciato mia madre era momentaneamente bloccato per beghe burocratiche e di colpo, da un giorno all’altro, mi ritrovai senza un soldo. All’epoca frequentavo l’ultimo anno di liceo, a cui ero arrivato miracolosamente dopo una serie di vicissitudini, ed ero iscritto al celeberrimo Istituto Studium, in via Ferrante Aporti, un ricettacolo di disadattati rampolli di famiglie bene a metà fra una scuola di lusso ed un riformatorio. Da anni gli assegni per pagare le salatissime rette delle scuole private che, ramingo, frequentavo in giro per Milano, portavano la mia firma; di conseguenza, trovarsi completamente al verde era diventato un problema. Arrotondavo facendo prima il pierre e poi il vocalist per una serie di discoteche minorili bazzicate dai figli di massoni e dalle principessine naziste e saltuariamente mi mettevo il grembiule per servire alle cene e alle feste delle famiglie bene milanesi, a servizio della Lalla Jucker, in città un’istituzione per quanto riguardava i catering di lusso.

Illusoriamente mi ero creato nella testa l’idea di essere diventato a 21 anni una sorta di celebrità, probabilmente per la quantità di spudoratezza che mi era concessa

Quello era il periodo in cui avevo completamente tagliato i ponti con tutta la famiglia, a parte mia zia Pia, l’unica che si era presa sempre cura di me, la cui malattia però si faceva sempre più grave. La casa a Palazzo Fidia era già svanita da tempo, inghiottita in complicate e fratricide contese ereditarie, così si viveva placidamente nel piccolo ma delizioso appartamento di Piazza Adigrat, il cui mutuo era garantito dal sopracitato fondo fiduciario che però era appena stato bloccato. Se a questo aggiungiamo il fatto che in quel periodo ero drogatissimo, il quadro è completo. Erano anni veloci e schizofrenici, con l’Alverman sempre in tasca e la cocaina nei risvolti delle costose giacche a vento firmate Aspesi. Ben presto divenni un maestro nel fingere di ascoltare mentre in realtà ero perso nei sogni su me stesso: fondamentalmente volevo scrivere, giocavo a fare il poeta maledetto e contemporaneamente facevo tardissimo tutte le notti in giro per tutte le discoteche della città. Entravo gratis dappertutto e nessuno mi faceva pagare mai da bere. Illusoriamente mi ero creato nella testa l’idea di essere diventato a 21 anni una sorta di celebrità, probabilmente per la quantità di spudoratezza che mi era concessa. Erano anni in cui tutte le porte si spalancavano, anni in cui potevi farti fare un pompino nei cessi di qualche locale alle quattro del mattino mentre tiravi di coca, anni in cui potevi permetterti di passare tre giorni a fare baldoria ospite nelle quattrocentesche case del centro di qualche minorenne con i genitori via per il week-end, tutti e due strafatti di droga. Era un mondo che stava diventando rapidamente senza limiti. Era basare alle 9 del mattino prima di entrare in classe. Era non scambiare una parola con i miei famigliari per cinque mesi filati.

A Londra andai con Nosa, uno dei miei più cari amici, e fummo reclutati entrambi al Cipriani di Maifayr, io come barman e lui come cameriere. Anche se più o meno eravamo costantemente strafatti

I due avvenimenti principali della fase seguente della mia vita furono l’assunzione come vice-barman serale in un locale dei genitori di un amico a Lambrate e il conseguente viaggio estivo a Londra, dopo l’ennesima bocciatura, a fronte di un record personale di tutto rispetto che segnava, alla fine dell’anno scolastico, sui regi registri del celeberrimo Istituto Studium: 107 giorni d’assenza e ben 48 ritardi. A Londra andai insieme a Nosa, uno dei miei più cari amici, e fummo reclutati entrambi al Cipriani di Maifayr, io come barman e lui come cameriere. Anche se più o meno eravamo costantemente strafatti. Dormivamo in una gigantesca casa in Queens Gate, davanti a Hyde Park, di proprietà del celebre compositore Vangelis, amico dei genitori di Nosa, e la nostra vicina di casa era la nipote del Sultano del Brunei. Come molti e stimati tossicomani quando uscivamo dai bagni del Cipriani spesso e volentieri avevamo la divisa sporca di cocaina, il bavero impolverato e i pantaloni cosparsi da grossi frammenti. Per evitare che ci drogassimo la famiglia di Nosa aveva assunto un tizio, un mezzo attore fallito di origini siciliane di nome Giuseppe Scutellà, che ci tenesse d’occhio. Cosa che induceva il giovane a perquisirmi quotidianamente, finendo per trovare le bustine di acido e coca e roba varia nascosta nelle giacche di Armani che poi spediva a lavare a secco.

Ecco perché conosco Arrigo Cipriani: il racconto della settimana su Venezia e i martini dell'Harry's Bar
L’Alverman.

Drogarmi per sostenere turni di lavoro massacranti sei giorni su sette provò una serie di effetti collaterali più seri: il collasso una sera durante un servizio e il coma una notte a una festa a Brixton, in cui rischiai la vita. Dopo un po’ a Scutellà non fregò più un cazzo, dato che fu scritturato per un film, che poi non fu mai distribuito, girato da Rolf de Heer, il regista di Bad Boy Bubby, una pellicola che aveva raggiunto un certo successo nei circuiti indipendenti dell’epoca. «Scutellà è stufo», mi ripeteva Nosa, «Scutellà se ne sbatte», così mi ritrovavo a farmi un tiro ogni 10 minuti, tracannando Cuba libre già alle due del pomeriggio prima di iniziare il turno di lavoro. Poi andai in overdose nella Jacuzzi della gigantesca casa in Queens Gate, davanti a Hyde Park, di proprietà del celebre compositore Vangelis e a quel punto Nosa iniziò a preoccuparsi sul serio e finii a settembre inoltrato in rehab in una villa in Grecia a picco sul mare, dispersa tra le colline della penisola Calcidica sopra a Porto Carras, ospite di DFA e della sua famiglia. L’onnipresente “odiavo mio padre” non bastava più come alibi assoluto per giustificare le mie malefatte. Era giunto il momento di limitare i danni, era giunto il momento di pretendere più da me stesso. Così mi ripulii, tornai a Milano, andai a vivere da solo in una mansarda due metri per tre che trovai in affitto in via Tiepolo  e spinto dalla mamma di DFA lasciai momentaneamente il lavoro e mi iscrissi al civico liceo serale con sede in via Goito a Milano, nelle aule del Parini, per l’ottavo anno consecutivo di liceo scientifico. In breve tempo però quello che avevo imparato durante quell’estate iniziò a svanire catapultandomi in un’altra fase della mia vita dove tutto cominciò a crollare nuovamente.  E in maniera più fragorosa.