Chissà se il regista Yuri Ancarani per caso ha letto Iosif Brodskij, perché il suo ultimo lavoro, Atlantide, presentato alla 78esima edizione della Mostra del Cinema, appare essere un lontano parente di Fondamenta degli Incurabili, lieve e immensa dichiarazione d’amore che il premio Nobel russo dedicò a Venezia nel 1989. Nessuno è stato in grado di raccontare Venezia come ha fatto Iosif Brodskij, Ancarani, oggi, ci va molto vicino, ritraendo i giovani della laguna che truccano barche, mangiano snack e ascoltano musica trap a tutto volume. Protagonista della vicenda è Daniele, un giovane di Sant’Erasmo, che, a bordo del suo barchino, viene seguito dalla cinepresa tra folli gare di velocità, incidenti, inseguimenti con le barche della guardia di finanza, furti, risse e storie d’amore che vanno in pezzi.
Con uno sguardo crudo e realistico, che ricorda per certi versi l’Accattone di Pasolini, Ancarani racconta i veri giovani veneziani e le loro giornate fatte di niente, le une identiche a le altre, proiettate con l’autoreverse verso il futuro. Un futuro che però non c’è, come quello declamato dal punk, trent’anni fa. Solo che oggi, invece dei Sex Pistols, al posto della bronchia al vetriolo di Syd Vicious o di John Lyndon, ci sono le liriche storte dei ragazzi della Dark Polo Gang e le basi elettroniche di Sick Luke, una specie di Re Mida della trap nostrana, che insieme all’ultra acclamato deejay Lorenzo Senni, ha confezionato la splendida colonna sonora del film.
I barchini di Venezia diventano metafora di libertà
Al centro della scena, oltre a un disagio matto e disperato, c’è la passione per i barchini, metafora assoluta di libertà, con i quali i ragazzi sfrecciano per i canali, a velocità assurde, illuminando la città di notte con dei Led super colorati che trasformano Venezia in una mega discoteca a cielo aperto. L’agonia dell’umano e in particolare della vita adolescenziale, con tutti i suoi riti di passaggio, schiaffeggia senza sosta lo spettatore che viene, suo malgrado, catapultato in un mondo vacuo e alienante, a tratti psichedelico, discostandolo totalmente dall’immagine di plastica che tutti hanno in mente di Venezia. Immagine restituita dal cinema hollywoodiano alla Woody Allen e dal turismo imperante e invasivo. Il barchino, così, si trasforma in un’isola tra le isole, come diventasse un non-luogo, totalmente autosufficiente, al bordo del quale si fa di tutto: si mangia, si dorme, si balla, ci si droga, si fa l’amore e si rischia, spesso, anche la vita.
Atlantide, lo sguardo inedito sulla città
Visionario, poetico e particolarmente intimo, il lavoro del regista ravennate, classe 1972, a metà tra cinema e arte, regala uno sguardo inedito sulla città rendendola un set cinematografico senza precedenti, ideale per narrare gli abissi dell’anima di una intera generazione. Una generazione appesa al proprio cellulare e alle stories di Instagram, che ha fatto del nichilismo la propria bandiera e che fotografa un disimpegno assoluto. Disimpegno all’interno del quale chi si consuma non sono tanto gli oggetti, quanto la quotidianità che, in assenza totale di prospettiva, non riesce più a proiettarsi in un futuro capace di far intravedere una qualche promessa. Ed è proprio questo senso di vuoto, rappresentato magistralmente dalle liriche della musica trap, che rende i giovani maggiormente vulnerabili, in un mondo in cui il nulla dilaga, penetra nei loro sentimenti, confonde i loro pensieri, cancella gli orizzonti, fiacca la loro anima. Non resta quindi che alzare il volume e gridare «Eskere!», contrazione e storpiatura dell’inglese «let’s get it», aumentando la velocità del barchino, tra un flex e l’altro.