Molto scosso dopo aver saputo della morte di Vangelis via whatsapp da DFA, mentre sono fuori dalla Belle Aurore con Nosama a fumare una sigaretta finiamo a parlare di estati. Inevitabilmente vengono fuori quelle trascorse in Salento, quella dell’interrail da sbarbi fiordilatte e ovviamente quella a Londra, dopo la mia maturità, mandati a imparare il lavoro da Cipriani dai suoi genitori, che all’epoca gestivano un celebre cocktail bar vicino a Lambrate, dove entrambi lavoravamo da circa un paio d’anni. Di quella estate ho già detto, ospiti a casa di Vangelis, a Queensgate, davanti a Hyde Park, tutta passata con noi due strafatti di droga 24 ore su 24 e dalla quale uscii talmente conciato che al mio ritorno a Malpensa a metà settembre i genitori di DFA mi misero su un aereo per Salonicco e mi portarono con loro, per disintossicarmi, in una splendida casa sulla Penisola Calcidica, in cui rimasi per 20 giorni senza droga e senza alcol. Fu in quel periodo che il piacere che provavo nel compatirmi si trasformò in una tristezza feroce e fu in quel periodo che decisi di darmi un’altra possibilità e iscrivermi all’università invece di tornare a Londra e trasferirmi lì definitivamente. Sarebbe bello raccontarvi come quella scelta mi cambiò la vita come sarebbe bello raccontarvi che sul racconto di un’estate tratta da un mio romanzo giovanile a un certo punto qualcuno ci aveva fatto un film.
I fatti narrati si svolgevano sulla riviera ligure di levante: tra Rapallo, Santa Margherita e Portofino. Il giovane protagonista, un 16enne tossico dal doppio cognome, aveva dovuto rinunciare per problemi economici al suo viaggio studio a Cambridge e senza troppo entusiasmo, suo malgrado, aveva dovuto accettare di partire con la cugina e raggiungere la zia, nella residenza estiva di famiglia, a Rapallo. Residenza oltretutto già sotto ipoteca, della quale erano state però conservate ancora le chiavi. Come sempre, dal 1980, anno in cui era nato, il programma sarebbe stato quello di trascorrere placidamente i due mesi estivi di luglio e agosto tra i lettini e le cabine dei Bagni Ariston, attendendo il ritorno a settembre in città. Unico premio per l’agognata promozione al secondo anno al bigio liceo scientifico Alessandro Volta di Milano era stata la concessione di due settimane in Corsica, a casa dei genitori di Dodo, con lui e Ale. Casa dalla quale, tra l’altro, era stato cacciato, tanto per cambiare per indisciplina, dopo soli sette giorni, e rispedito a casa su un comodo traghetto Calvi-Genova. Le cose poi erano andate più o meno così.
Ospiti a casa di Vangelis, a Queensgate, eravamo strafatti 24 ore su 24. Da quell’estate uscii talmente conciato che al mio ritorno a Malpensa a metà settembre i genitori di DFA mi misero su un aereo per Salonicco e mi portarono con loro per disintossicarmi
[Rapallo, agosto 1996. Tornato dalla Corsica ero sempre troppo stanco o strafatto o rovinato perfino per uscire di casa. Zia Pia passava tutto il giorno agli Ariston stesa su un lettino a rosolarsi al sole e mia cugina Laura era partita per un giro in barca a vela in Tunisia. Ogni giorno stavamo in allerta perché da un momento all’altro sarebbe potuto arrivare da St. Raphael mio cugino Luciano con sua moglie Chicca e i due gemelli, Simone e Rebecca, due bambini bellissimi, biondi con gli occhi azzurri, che avevano all’incirca sette anni meno di me e che in fondo conoscevo appena. Ludovica, con la quale l’anno prima avevo avuto un piccolo flirt, continuava a telefonarmi e a dirmi che noi due avremmo dovuto fare qualcosa assieme e alla fine, anche se non ne avevo nessuna voglia, un pomeriggio le dissi di passare da me. Trovammo una cassa di champagne in garage e ce la bevemmo tutta in una settimana. Di solito aprivamo una bottiglia verso mezzogiorno, dopo la passeggiata sul lungomare di Santa, e il pomeriggio ci rifugiavamo nel mio soggiorno con le tapparelle abbassate e stavamo stesi, uno di fianco all’altra, guardando, con gli occhi vitrei, le nostre ombre mutare sulle pareti bianche della sala. La casa stava sulle cosiddette Hills tra Rapallo e Santa Margherita e aveva un grande giardino e un campo da tennis, ma né io né Ludovica giocavamo a tennis. Invece io giravo per la casa di notte, ascoltavo vecchi dischi dei Doors e a volte mi sedevo fuori a bere quello che restava dello champagne fino a quando non ero troppo stanco o triste e decidevo di ricoverarmi tra le lenzuola. Durante quei pomeriggi poi iniziai a sentirmi confuso. Sapevo di aver bevuto troppo e tutte le volte che Ludovica apriva bocca per dire qualcosa mi veniva da chiudere gli occhi e sospirare.

La svolta arrivò all’improvviso quando finalmente mia zia mi diede il permesso di uscire con la compagnia dei ragazzi più grandi che fino a quel momento avevo visto come degli idoli. Il mio preferito si chiamava Piergianni, un ragazzo di Torino, allampanato, sempre abbronzatissimo, che girava per Rapallo con una Mazda decappottabile rosso fuoco e che la sera era sempre ubriaco. Poi c’erano anche Marco Capone, Lupo, Da Silva e soprattutto Piero e suo fratello Gabriele, altri due ragazzi di Torino a cui mi legai indissolubilmente per tutto il resto dell’estate. Con Gabriele, in particolare, iniziammo a fare coppia fissa e in coppia iniziammo a devastarci sistematicamente dal mattino alla sera senza soluzione di continuità. Ludovica perse rapidamente il suo interesse nei miei confronti e si innamorò perdutamente di Gabriele. Sua sorella Lucrezia invece si fidanzò con Da Silva, che agli Ariston di giorno faceva il bagnino. La più bella della spiaggia era sicuramente Silvia, una ragazza con i capelli rossi, di Milano, del giro Madame Claude, molto amica di Piero e Gabriele, che però per tutti era irraggiungibile, presa com’era dalle sue frequentazioni milanesi tra Santa e Portofino. Piero era appena arrivato a Rapallo da Amsterdam con un sacco di erba allucinogena e così i giorni trascorrevano e noi eravamo sempre più sconvolti. Le serate si stava al Sabot o al Master in piazzetta a Santa e poi si migrava al Covo o al Carillon, dove nessuno di noi pagava mai perché in definitiva eravamo troppo fighi e soprattutto perché Lello Liguori, il proprietario del Covo, era uno dei migliori amici di Franco Ambrosio, il padre della fidanzata di mio cugino Giorgio, che all’epoca in riviera era molto potente. Fu durante una di quelle notti che con Gabriele iniziammo a farci in coppia Sibilla, una bionda mozzafiato di Reggio Emilia di 19 anni che, più o meno nelle ultime due estati, si era scopata praticamente metà degli Ariston. Sibilla guidava una Fiat Coupè blu elettrico e fu proprio a bordo di quella Fiat che una donna per la prima volta mi prese il cazzo in bocca.]
Decorre proprio quest’anno l’anniversario per i 50 anni dell’interrail e se ci penso sembra ieri che nel salotto di casa di Dodo in via Ampère, ci si trovava nei pomeriggi di maggio del 1997 a organizzare l’itinerario che ci avrebbe visti vagare tra Juan Les Pins, Parigi e Amsterdam
Quella del 1996 fu l’ultima estate che trascorsi a Rapallo anche perché da quel momento in poi mi attendevano nuove avventure in totale indipendenza con gli amici, con i drughi e con i fratelli di sempre, raminghi in giro per l’Europa tra interrail, biglietti del treno falsi e altre sciccherie del genere. Decorre proprio quest’anno l’anniversario per i 50 anni dell’interrail e se ci penso sembra davvero ieri che con Dodo e Nosama, seduti sulle Cesca del salotto di casa di Dodo in via Ampère, ci si trovava nei pomeriggi di maggio del 1997 a organizzare l’itinerario che ci avrebbe visti vagare tra Juan Les Pins, Parigi e Amsterdam, zaino in spalla e con l’atteggiamento da avventurieri consumati. Si scelse Juan Les Pins perché l’estate prima Piero a Rapallo ne aveva parlato in maniera particolarmente entusiasta. Si scelse Parigi perché era la mia ossessione e perché era doveroso fare tappa in pellegrinaggio sulla tomba di Jim Morrison a Pére Lachaise. E infine si scelse Amsterdam perché l’obiettivo sempre e comunque era quello di farsi il più possibile e per sconvolgersi non c’era in Europa un posto migliore di quello. Ricordo quell’estate come tremenda e mitologica al tempo stesso, gli squallidi alberghi di Montmartre e di Amsterdam, le notti trascorse in spiaggia o a dormire per terre alla Gare du Nord e la fame che sopraggiunse gli ultimi giorni quando finirono i soldi e fummo costretti a battere in ritirata dopo soli 11 giorni di vacanza. Gli anni successivi cambiai compagnia e i biglietti dell’interrail furono sostituti con dei più intraprendenti BIGE, biglietti del treno riservati agli studenti che compravamo a prezzi stracciati all’agenzia di viaggio Transalpino vicino alla Stazione Centrale di Milano e che in un secondo momento, armati di solvente per unghie e stampante ad aghi, falsificavamo a casa del drugo Fede sostituendo la destinazione scritta sopra, che solitamente per motivi economici era Chiasso, per metterci comodamente quella che al momento più desideravamo. Ma questa è un’altra storia.

Fatto sta che la casa sulle Hills di Rapallo non la vidi mai più, caduta nei complicati intrecci di sequestri e pignoramenti che investirono in quel periodo la mia famiglia. Ogni tanto però ci penso ancora alla casa al mare, casa che mio padre odiava, all’interno della quale si consumava un faticoso stile di vita. La pedagogia imperante della casa al mare si basava su poche regole, l’inosservanza delle quali esponeva tuttavia a qualche vessazione. Giocare a tennis anche male era un obbligo da cui era esente solo chi mostrava interesse a questo sport assistendo alle partite che si svolgevano due volte al giorno sul campo di casa. Persone di provenienza extracomunitaria erano tollerate solo se “di servizio” e subordinate. L’istruzione impartita in lingua inglese o francese alla maggioranza dei ragazzi o delle ragazze del parentado e la frequentazione di scuole straniere era assolutamente obbligatoria. Fortunatamente nel mio caso, essendo di gran lunga il più piccolo di tutto lo stuolo di cugini, quando arrivò il mio turno, tutte queste regole furono praticamente abolite anche se alcuni rituali li ricordo perfettamente. Ricordo tutti quegli arrivi il venerdì sera e quelle partenze la domenica pomeriggio e soprattutto ricordo che fu alla casa al mare che appena cacciato da Le Rosey, con ancora la divisa del collegio addosso, in lacrime, pregai mia nonna di prendermi con sé a Palazzo Fidia e farmi tornare a Milano.
La casa sulle Hills di Rapallo non la vidi mai più, caduta nei complicati intrecci di sequestri e pignoramenti che investirono in quel periodo la mia famiglia. Ogni tanto però ci penso ancora alla casa al mare, casa che mio padre odiava, all’interno della quale si consumava un faticoso stile di vita
Se per il ramo paterno la casa di riferimento fu quella di Moltrasio, quella di Rapallo fu lo stesso per quello materno. Se per il ramo paterno il motore di tutto fu la zia Zhora, capo indiscusso del clan bulgaro della famiglia, a comandare sul quella di mia madre la regina assoluta fu certamente mia nonna Maria. Bella, altera, dura, intrattabile. Siciliana, di Marsala, nonna Maria di cognome faceva Anca e si sposò in giovanissima età, appena arrivata a Milano, con Luciano Venelli, figlio di una Winspeare, famiglia anglo-napoletana di una aristocrazia recente, conti per meriti militari dal 1789. Si ameranno per una decina d’anni poi Venelli morì molto giovane, nel 1934, lasciando due figlie, Lidia e Amelia. Rimasta vedova Maria si trovò a dover crescere da sola due figlie piccole e da quel matrimonio ereditò, oltre a una cospicua pensione anche un malconcio appartamento a Palazzo Fidia, in centro a Milano, in via Melegari 2, in cui rimase quasi fino alla fine dei suoi giorni. Successivamente iniziò una relazione clandestina con un altro conte (tanto per cambiare) che di cognome faceva Ceriani Sebregondi, e che le diede altre due figlie: Pia e Renata, mia madre. Figlie che ancora una volta mia nonna Maria crebbe da sola. Quando anche il conte Sebregondi morì mia nonna Maria aveva poco più di 40 anni e iniziò a recitare la parte della ragazza che proveniva da una famiglia principesca con pochi quattrini, cosa che le permise di non lavorare mai, nemmeno un solo giorno in tutta la sua vita. Morì a 93 anni nel suo letto nell’appartamento di Via dei Transiti. In famiglia si vocifera che non resse l’abbandono di Palazzo Fidia, primo pezzo pregiato a essere ceduto e diviso tra i parenti. È sepolta al Cimitero Monumentale di Milano, di fianco a sua figlia Renata, la cui scomparsa a soli 37 anni, in seguito ad un terribile incidente stradale in Svizzera, fu il più grande dolore della sua esistenza. Mi voleva molto bene.