Alla fine di luglio i ricercatori in Israele hanno pubblicato nuovi dati su Covid-19 e non erano certo rassicuranti: molti israeliani, tra i primi a ricevere il vaccino, stavano infettandosi con la variante Delta di Sars-Cov-2, il virus responsabile della pandemia. Lo studio ha messo in evidenza il fatto che i vaccini perdano di efficacia col tempo e che l’immunità vada calando. Cosa che ha riacceso il dibattito sul richiamo, la famosa terza dose annunciata al G20 dal ministro della Salute, Roberto Speranza, e che partirà in Italia a fine settembre. Anche negli Usa è recente la raccomandazione dell’amministrazione Biden che tutti gli americani ricevano una vaccinazione di richiamo, la terza, otto mesi dopo aver fatto la seconda dose. Ma quanto c’è di vero nel calo dell’immunità? «È normale che i vaccini perdano man mano di efficacia. Il virus, continua a cambiare», osserva Luca Guidotti, immunologo e virologo, e vicedirettore dell’Irccs Ospedale San Raffaele di Milano. «Un anno fa non c’era la variante Delta, ormai prevalente al 90 per cento in tutto il mondo, e chissà che in autunno non ne emerga una nuova peggiore. Bisogna continuare a monitorare. Le opzioni sono ancora tutte aperte».
In calo l’efficacia dei vaccini
Sta di fatto che in Paesi altamente vaccinati che sembravano avere messo sotto controllo l’infezione, tra cui Israele e Regno Unito, molte persone si chiedono quanto siano realmente protette e se sia giustificato il ricorso a un booster, ossia a un richiamo del vaccino, per arginare la natura straordinariamente infettiva della variante Delta. «L’efficacia del vaccino con Delta è diminuita. È indiscutibile», ha affermato Leif Erik Sander, esperto di malattie infettive presso l’ospedale universitario Charité di Berlino, intervistato dal New York Times. Quanto esattamente è calata? In una recente ricerca che ha analizzato i dati settimanali dei residenti nelle case di cura negli Stati Uniti, i ricercatori hanno concluso che l’efficacia dei vaccini a Rna messaggero (mRNA), come Pfizer e Moderna, è passata dal 75 per cento pre-Delta al 53 per cento dopo che la variante ha preso il sopravvento. Un ampio studio del Regno Unito, pubblicato in forma pre-print (il mezzo preferito per rendere noti i risultati preliminari di ricerche sganciate dal vaglio dei cosiddetti revisori paritari o peer reviewer) ha utilizzato i dati raccolti dall’Office for National Statistics Covid-19 Infection Survey, che testa regolarmente più di 300 mila persone scelte a caso nel Regno Unito. Lo studio ha messo a confronto persone vaccinate e non che sono risultate positive a Sars-CoV-2 in due periodi di tempo: dal dicembre 2020 fino al 16 maggio, quando dominava la variante Alpha, e dal 17 maggio all’1 agosto, quando prevaleva la Delta. I ricercatori hanno visto che per i due principali vaccini in uso nel Regno Unito, Pfizer e AstraZeneca, la protezione contro l’infezione sintomatica è diminuita significativamente nel periodo Delta, all’84 per cento per Pfizer e il 71per AstraZeneca. E hanno anche rilevato, coerentemente con altri studi, che rispetto ai casi dovuti alla variante Alpha, le persone con Delta avevano, in media, cariche virali molto più elevate in naso o gola, suggerendo che è più probabile che diffondano il virus ad altri. Un ampio studio sulle cartelle cliniche dei pazienti a New York pubblicato in questi giorni ha raccontato una storia simile: l’efficacia dei tre vaccini autorizzati negli Stati Uniti è scesa dal 91,7 per cento al 79,8 tra maggio e luglio, quando si è imposta la Delta.

Alcuni scienziati ritengono che i dati israeliani siano fuorvianti e che le prove sulla diminuzione dell’immunità non siano chiare. Che cosa dicono quei dati? Che persone vaccinate in inverno avevano maggiori probabilità di contrarre il virus nell’estate rispetto a chi si era vaccinato in primavera. Ma sarebbe davvero una prova della diminuzione dell’immunità solo se i due gruppi – i destinatari del vaccino in inverno e in primavera – fossero simili tra loro. A quanto pare erano diversi: i primi israeliani ad aver ricevuto il vaccino tendevano a essere più benestanti e istruiti. Ed erano stati tra i primi a essere esposti alla variante Delta, forse perché erano più propensi a viaggiare. Il loro più alto tasso di infezione sarebbe potuto derivare dallo stile di vita e non da cambiamenti nella protezione vaccinale. «Il fatto che ci si stia riammalando di Covid potrebbe riflettere la nuova esposizione alla variante Delta, piuttosto che una diminuzione dell’immunità nel tempo. Se il calo dell’immunità fosse il vero problema, dovremmo aspettarci un aumento più rapido dei casi di Covid tra le persone anziane (tra le prime a ricevere le vaccinazioni). Se ci sono dati che dimostrano la necessità di booster, dove sono?» ha scritto Zeynep Tufekci, sociologo ed editorialista del New York Times. «L’idea dell’immunità che va scemando col tempo è irresistibile per molti, come i produttori di vaccini – Pfizer, Moderna e altri – che hanno un incentivo a promuoverlo, perché i richiami porterebbero loro grandi profitti».
L’immunità diminuisce dopo un anno
L’immunità probabilmente diminuisce modestamente entro il primo anno dalla vaccinazione, dicono i virologi. Per questo motivo, molti di loro ritengono che i richiami abbiano senso per le persone vulnerabili. Come ha detto Céline Gounder del Bellevue Hospital Center di New York, i dati dei Centers for disease Control (Cdc) «Servono dosi aggiuntive di vaccino per persone altamente immunocompromesse e residenti in case di cura, non a tutti indiscriminatamente». D’altronde «gli immunodepressi e le persone che non rispondono bene al vaccino rappresentano un serbatoio pericoloso», aggiunge Guidotti. Per il quale sarebbe bello avere un vaccino specificamente progettato per combattere la variante più diffusa. «Non sappiamo se un booster non pensato specificatamente su Delta migliorerebbe la protezione contro questa variante», ha detto al New York Times Aaron Richterman, esperto di malattie infettive all’Università della Pennsylvania. «Una politica nazionale di frequenti di richiami ha costi significativi, finanziari e non».
I residenti delle case di cura statunitensi che sono stati studiati sono più anziani e fragili e la loro risposta al vaccino potrebbe diminuire più velocemente rispetto ad altri, ipotizzano alcuni esperti. Sono stati anche tra i primi a ricevere la vaccinazione, alcuni addirittura nel dicembre 2020. Lo studio del Regno Unito ha tentato di risolvere questo problema, analizzando la situazione da quando Delta è diventata dominante e confrontando il tasso di infezione con il tempo trascorso da quando una persona ha ricevuto la seconda dose di vaccino. Il team di ricerca ha scoperto come le persone che hanno ricevuto il vaccino AstraZeneca avessero il 68 per cento di protezione contro l’infezione due settimane dopo il secondo inoculo e il 61 per cento dopo 90 giorni. Il calo è stato più netto in coloro che hanno ricevuto Pfizer: quattordici giorni dopo la seconda dose, sembrava fornire una protezione dell’85 per cento contro le infezioni Delta, sintomatiche o meno, ma è scesa al 75 dopo 90 giorni.
La protezione di Pfizer diminuisce più velocemente
«Potrebbe accadere che la protezione di Pfizer scenda dai livelli inizialmente molto elevati e poi si stabilizzi, oppure potrebbe essere la prova che chi ha ricevuto due dosi di Pfizer abbia bisogno di una terza dose», ha affermato Sarah Walker, epidemiologa di Oxford che ha guidato lo studio nel Regno Unito. In Israele, che ha utilizzato solo i vaccini Pfizer, i ricercatori hanno anche notato che le persone immunizzate a gennaio avevano il doppio del rischio di essere infettate a giugno e luglio rispetto a chi era stato vaccinato ad aprile. Ma David Dowdy, un epidemiologo di malattie infettive alla Johns Hopkins University, osserva che l’apparente declino della protezione potrebbe avere altre cause, compresi i cambiamenti nel comportamento individuale e il tasso di trasmissione nella comunità. Dowdy osserva che nello studio di New York, l’efficacia dei vaccini anti-Covid è diminuita maggiormente tra i 18 e i 49 anni e meno tra quelli di età superiore ai 65 anni. «Ciò suggerisce comportamenti a rischio tra i giovani, come le cene e i pranzi fuori o i concerti con meno mascherine e più assembramenti», dice Dowdy. «Una esposizione più frequente e più intensa nel tempo gioca un ruolo insieme a Delta o alla possibile diminuzione dell’immunità vaccinale». I vaccini proteggono ancora dalle forme gravi di malattia? «Gli ultimi dati sono più rassicuranti. La possibilità di evitare il ricovero sembra stabile», afferma Sander. I dati del ministero della Salute israeliano suggeriscono che la protezione contro le malattie gravi è quasi del 92 per cento per le persone di età pari o inferiore a 50 anni e dell’85 per chi ha più di 50 anni.

Perché l’idea dei booster o richiami nella popolazione generale suscita polemiche? C’è chi la reputa non necessaria: le persone vaccinate sono ancora protette contro la malattia grave, e considerata la carenza di dosi di vaccino in tutto il mondo, la decisione appare non etica. Israele ha iniziato le iniezioni di richiamo per tutte le persone di età superiore ai 50 anni e sta considerando di estendere l’offerta a chi ha un’ età superiore ai 40 anni. La Germania ha affermato che inizierà a offrire booster alle persone ad alto rischio il mese prossimo. Nel Regno Unito, alcuni funzionari hanno detto che la terza dose potrebbe iniziare il mese prossimo, sebbene non sia stata presa alcuna decisione formale. «C’è una parte della popolazione per la quale due dosi non sono sufficienti e sono necessarie tre» afferma Sander, che ha studiato gli effetti dei booster in pazienti immunocompromessi.
È probabile che richiami per gli operatori sanitari e chi ha contatti stretti con le persone con un sistema immunitario più debole siano importanti, dice Sander, per prevenire la trasmissione ai più vulnerabili. Secondo Akiko Iwasaki, immunologa alla Yale University, sebbene i gruppi a rischio dovrebbero ricevere per primi la terza dose, se fossero sufficienti, anche la gente in generale ne trarrebbe beneficio. E fa notare come la carica virale più elevata osservata nelle reinfezioni sia indipendente dall’età, quindi anche per le persone di 20 anni, un livello più alto di immunità potrebbe contribuire a tenere sotto controllo il virus, aiutando a prevenire la trasmissione.
L’utilità della terza dose
Ma ci sono prove che la terza dose del vaccino contro il Covid-19 sia utile? Uno studio sul vaccino anti-Covid a giugno ha concluso che i riceventi di trapianto di organi che avevano risposto male a due dosi di vaccino mRNA, hanno risposto meglio a una terza dose: otto dei 24 pazienti che non avevano anticorpi dopo due hanno sviluppato anticorpi dopo una terza e sei con bassi livelli di anticorpi hanno sviluppato livelli elevati dopo il richiamo. Dati molto preliminari raccolti in Israele suggeriscono come una terza dose sia «efficace per l’86 per cento» nella prevenzione delle infezioni nelle persone di età pari o superiore a 60 anni, una settimana dopo aver ricevuto un richiamo, ma non sono stati forniti altri dettagli per poter valutare il risultato.
«Se dovesse emergere una variante in grado di sfuggire significativamente all’immunità indotta dai vaccini, questa potrebbe trovare un serbatoio anche nei vaccinati e rimpiazzare la Delta. Una possibilità che esiste ma noi non sappiamo quanto spazio abbia ancora il virus per mutare nella proteina Spike su cui si basano i vaccini ora usati» conclude Guidotti. Non si conosce l’impatto dei non vaccinati sull’evoluzione della pandemia. Ma una cosa è certa se il virus riemerge dipende dall’esposizione e dai comportamenti sia di vaccinati e non.