Quattro anni fa, nel giugno 2017, il festival lirico all’Arena di Verona si è aperto con una messinscena a suo modo sintomatica di Nabucco. Lo spettacolo firmato da Arnaud Bernard offriva la rappresentazione kolossal della terza opera di Verdi dal punto di vista della sua ricezione e della sua fortuna. Era la narrazione metateatrale di Nabucco come “opera patriottica”, primo passo di un percorso creativo grazie al quale il suo autore sarebbe diventato, una volta fatta l’Italia, un venerato padre della patria.
Campeggiava nel mezzo della scena una notevole ricostruzione del Teatro alla Scala, invenzione cospicua dello scenografo Alessandro Camera, che lo spettatore poteva osservare, grazie a un meccanismo girevole, sia in esterni che all’interno, quest’ultimo – citazione viscontiana un po’ scontata – con i palchi colmi di pubblico e irti di bandiere tricolori, mentre gli occupanti se ne stavano in platea.
Il resto della scena era ingombro di barricate e affollato di cittadini milanesi in armi, alle prese con gli occupanti austro-ungarici. E pazienza se l’opera debuttò alla Scala sei anni prima delle gloriose Cinque Giornate milanesi del 1848 (a cui il regista faceva chiaro riferimento), e cioè nel marzo del 1842. Di più, il protagonista in titolo, Nabucco, era vestito e truccato in modo da farlo assomigliare all’imperatore d’Austria e Ungheria, Francesco Giuseppe, con divisa bianca e fascia rossa, completo di baffoni e favoriti, così come effigiato in vari ritratti tutti successivi di qualche decennio alla composizione. All’epoca della prima di Nabucco, Cecco Beppe doveva ancora compiere 12 anni.
Il coro Va’ pensiero nacque senza alcuna intenzione patriottica
La spettacolare forzatura di Bernard, in sostanza, voleva corrispondere al sentimento del pubblico nei confronti di quest’opera ed è sembrata del tutto naturale agli spettatori assiepati sulle gradinate dell’Arena, che hanno decretato il successo dell’operazione. Questo sentimento dura da quasi un secolo e mezzo e ha il suo punto focale nel brano che viene percepito come la sintesi emotiva dell’opera, il coro Va’, pensiero, certamente la pagina oggi più popolare e amata di Verdi.

In realtà, il coro nacque senza la minima intenzione patriottica da parte del compositore o del suo librettista Temistocle Solera, come del resto l’opera nel suo insieme. E il suo destino non fu quello di avere fortuna fin dalla prima assoluta. La ripetizione a furor di pubblico in quell’occasione, infatti, non c’è mai stata nonostante la vulgata in tal senso, dura a morire almeno sino all’ultimo decennio del XX secolo. Invece, la percezione di questo brano è cambiata strada facendo e si è consolidata nell’attuale ricezione solo a partire dalla morte del musicista. Le tappe di questa trasformazione sono oggi chiare e disegnano una delle vicende più singolari nella storia dell’opera italiana.
Dietro la fortuna del coro del Nabucco ci fu un’abile operazione di marketing
Con il suo stile brillante e colto, che gli appassionati dell’opera ben conoscono, Alberto Mattioli affronta la questione nella sua ultima fatica editoriale, Va’, pensiero, un piccolo libro di grande interesse edito da Garzanti. Mattioli, 52 anni, modenese (dettaglio che qualcosa deve avere contato, nella sua vocazione), fa anche l’inviato di politica (e non solo) alla Stampa, e se non avete letto le sue corrispondenze dal Papeete nella tumultuosa estate del 2019, vi siete persi qualcosa. Ma è soprattutto un grande connoisseur di melodramma con annessi e connessi, un critico musicale appassionato e un frequentatore disinvolto della Rete e dei social. Suo vezzo caratteristico è tenere aggiornati i suoi numerosi follower sul numero delle recite d’opera a cui ha assistito: mentre scriviamo, dopo un weekend a Salisburgo si è issato a quota 1.805.

La storia di Va’, pensiero, così come Mattioli la ricostruisce nella prima parte del sintetico saggio intitolato L’inno mancato, è anche la storia di un’abile operazione di comunicazione e marketing, nata peraltro quasi 40 anni dopo il debutto di Nabucco. È solo dai primi Anni 80 dell’800, infatti, che Verdi, se deve parlare della sua opera ebraica-babilonese, mette al centro della narrazione Va’, pensiero. Ancora un decennio prima, aveva raccontato tutta un’altra storia e al coro non aveva fatto proprio cenno. Geniale anche nel vedere e interpretare le reazioni del suo pubblico, evidentemente il compositore aveva colto perfettamente quale trasformazione avesse subito nel tempo la ricezione di quel brano: creava un senso di immedesimazione, politico prima ancora che patriottico; dava voce al disincanto di una Nazione che dopo l’unità d’Italia, quando la spinta propulsiva degli ideali risorgimentali era ormai tramontata e allo stesso tempo rimpianta, doveva affrontare problemi economici e sociali che sembravano insormontabili e spesso erano attribuiti allo stesso processo unitario. In questa situazione di crisi, gli italiani avevano cominciato a sentire molto vicini la nostalgia e il rimpianto del popolo ebraico deportato sulle rive dell’Eufrate, se non altro per quanto riguardava tante speranze “sì belle e perdute”. Poi, nel 1901 l’appropriazione popolare si sarebbe saldata con la devozione per l’autore di questa musica grazie all’esecuzione diretta da Arturo Toscanini al Cimitero Monumentale di Milano in occasione della traslazione della salma del compositore alla Casa di riposo da lui fondata, un mese dopo la morte. Era l’inizio della ormai ultrasecolare vita autonoma di Va’, pensiero.
La strumentalizzazione della politica del Va’ pensiero di Bossi e l’infatuazione di Craxi
All’altro capo del Novecento sarebbe maturata la strumentalizzazione partitica in chiave autonomistica da parte della Lega Nord di Umberto Bossi. La sua idea di fare del coro l’Inno nazionale italiano era una strategia di destabilizzazione politica. Nell’attesa, bastava farne l’Inno della Padania. Nel mezzo, fra le due guerre e dopo, Va’, pensiero – racconta Mattioli con dettagli di notevole suggestione – ha conosciuto esecuzioni di ogni tipo e davanti a ogni genere di pubblico, infatuazioni come quella di Bettino Craxi nel campo politico e di un intellettuale del calibro di Guido Ceronetti in quello culturale. Ed è finito inevitabilmente nel cinema, adottato da Bernardo Bertolucci per Novecento e da Coppola per Il Padrino III, ma pure da Ettore Scola e Dario Argento, fino al caso recentissimo de Il traditore di Marco Bellocchio, che impiega il coro come colonna sonora mentre sullo schermo scorre l’elenco delle sentenze al primo maxiprocesso contro la mafia. «Ancora una volta, una canto di sconfitta diventa un inno di vittoria, o almeno di speranza», annota ottimisticamente Alberto Mattioli. Quanto a farne l’Inno nazionale italiano, la partita è chiusa nei fatti almeno dall’inizio del XXI secolo. Formalmente la partita si è chiusa a fine 2017, quando l’Inno di Mameli è uscito dal limbo della lunghissima “provvisorietà” e ha assunto per legge il rango dell’ufficialità. Meglio così.