Usa, perché le elezioni di Midterm 2022 valgono più del solito

Mario Margiocco
11/09/2022

Questa volta al voto di metà mandato c'è in gioco più di qualche seggio al Congresso. Si affrontano le anime di due Americhe, quella delle libertà individuali e quella dei valori tradizionali. E sarà un referendum decisivo su The Donald e il suo possibile ritorno dopo l'assalto al Congresso.

Usa, perché le elezioni di Midterm 2022 valgono più del solito

Tutti i presidenti americani in carica hanno perso, dal 1946 in poi, il voto di metà mandato, due anni dopo l’elezione. È il momento in cui si fanno i primi conti tra le promesse elettorali e la realtà, e il partito che ha la Casa Bianca paga il prezzo, non solo al Congresso che è il termometro principale, ma non di rado anche nelle numerose votazioni Stato per Stato, dove si rinnovano parte dei governatori e numerose altre cariche locali. Unica eccezione, dal 1946, il voto del 5 novembre 2002, quando George W. Bush guadagnò due seggi al Senato, che a ogni midterm viene rinnovato per un terzo, e 8 seggi alla Camera, dove il mandato è biennale e che ogni due anni, in blocco, si va al giudizio agli elettori; Bush figlio era spinto dal forte sentimento di unità nazionale dopo i terribili attentati, le Torri Gemelle di Manhattan e altro, del settembre 2001. Ma in 17 delle 18 midterm degli ultimi 76 anni la Casa Bianca ha sempre perso alla Camera, con in media 26 seggi in più andati al partito avversario.

Usa, perché le elezioni di Midterm 2022 valgono più del solito
Donald Trump. (Getty)

Brutta aria per Biden, ma forse non ci sarà una sconfitta bruciante

Quest’anno c’è però una differenza notevole che introduce una incognita in questo schema e potrebbe alterare la regola secondo cui un presidente dovrebbe perdere, oltretutto se ha i bassi tassi di gradimento di Joe Biden, approvato solo da poco più del 30 per cento degli elettori, dicono i sondaggi. E perdere malamente se si aggiunge che per l’80 per cento degli americani il Paese è «su una strada sbagliata», con solo il 13 per cento (l’ultimo sondaggio New York Times/Siena College) che lo vede «in una buona direzione». La differenza si chiama Donald Trump e fa sì che le previsioni per Biden, che ha una maggioranza risicatissima di quattro seggi alla Camera e di un solo voto al Senato, siano sempre negative ma che molti esitino a prevedere una sconfitta bruciante. Perderà la maggioranza, passaggio cruciale, ma potrebbe non essere una catastrofe quanto a seggi. I democratici, insomma, sperano ancora, magari, di riuscire a salvare una maggioranza, forse al Senato.

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Joe Biden. (Getty)

Primo voto dopo l’incredibile assalto al Congresso del 6 gennaio 2021

Questa volta il voto di midterm non è soltanto il solito referendum biennale sul presidente in carica e sul suo partito, ma è anche e forse ancor più un referendum su quell’anomalo e ingombrante personaggio a nome Trump, caso unico negli ultimi 76 anni di presidente sconfitto ma non domo e sempre sulla scena. Il voto del prossimo 8 novembre sarà il primo dopo gli incredibili e gravissimi fatti del 6 gennaio 2021, quando una folla bellicosa assaltò il Congresso, con di fatto la benedizione del presidente uscente Trump, per cercare di impedire la ratifica da parte del Senato dei risultati elettorali dei vari Stati. Come noto, Trump è riuscito a restare sulla scena inventandosi che la sua sconfitta è frutto di brogli elettorali e trovando eco a questa tesi bislacca in circa un quarto dell’elettorato americano, circa metà dell’elettorato repubblicano. Ma è una solidarietà in erosione. I sondaggi indicano quindi da luglio una corsa molto sul filo per il Congresso, e sembrerebbero smentire altri dati che disegnano un’America fuori controllo e in preda a una crisi profonda. Che c’è ed è chiara, ma non ha ancora fatto saltare i cardini del sistema, nonostante Trump.

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Contestatori di Trump. (Getty)

Dopo la sentenza sull’aborto, la battaglia per i diritti si è inasprita

Il dato più preoccupante è quello che un recente sondaggio dell’Institute of Politics dell’università di Chicago valuta al 28 per cento: questa la percentuale di elettori «d’accordo con la tesi secondo cui potrebbe presto rendersi necessario per i cittadini scendere in piazza armati per combattere il governo». La Casa Bianca sta cercando di portare su questo, cioè sulla necessità di salvaguardare il sistema, il baricentro del dibattito elettorale, dopo mesi di incertezze in cui sembrava schiacciata dalle cattive notizie sul fronte dell’inflazione, del prezzo del carburante alla pompa, e dell’insoddisfazione economica di decine di milioni di americani. Una cruciale decisione della Corte suprema, e la reazione negativa del 60 per cento circa dell’opinione pubblica, introducevano però a fine giugno un nuovo elemento. La massima magistratura federale annullava di fatto la sentenza Roe vs. Wade del 1973 che aveva legalizzato l’aborto; ha inciso sulla legislazione locale e reso l’interruzione di maternità praticamente impossibile in metà degli Stati e semi-impossibile o complicata negli altri. Al di là della materia in sé, quanto mai delicata sotto tutti gli aspetti, la fine di Roe vs. Wade è diventata il simbolo della lunga guerra culturale fra le due Americhe che va avanti ormai da oltre mezzo secolo, quella fra le libertà individuali e i valori tradizionali, e questo si è aggiunto ai temi economici dominanti come dato caratterizzante di queste elezioni.

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Verso il voto di Midterm. (Getty)

Il presidente ha alzato il tiro contro la minaccia dei trumpiani

Con un discorso tenuto a Philadelphia nei giorni scorsi, in uno Stato come la Pennsylvania, centrale in queste elezioni, Biden ha dichiarato aperta «la battaglia per l’anima della nazione», ha attaccato i “MAGA republicans” (Make America Great Again, lo slogan trumpiano numero uno), e ha tracciato i confini: i MAGA «non credono nel governo delle leggi», ha detto, «rifiutano di accettare il risultato di libere elezioni» e altro. Sono una minaccia per il Paese, ha concluso, dopo aver ricordato come non tutti i repubblicani sono sotto le bandiere MAGA e anzi, in molti si sono opposti alle follie di Trump. Una parte dei commenti dicono che ha spinto troppo oltre l’attacco, lasciando poco spazio al dialogo. Altri dicono che ha chiarito la posta in gioco. Il senatore John Neely Kennedy, repubblicano della Louisiana, trumpiano, semplice omonimia con il presidente Kennedy, subito ascoltato da Fox News, ha definito il tutto «un cinico tentativo di Biden di riempirci la testa con delle stupidità». Ma l’assalto armato al Campidoglio il 6 gennaio del 2021 non è un’invenzione, anche se certamente è stato fra le altre cose una stupidità, e nemmeno lo è il fatto che né Trump né molti suoi seguaci si siano mai dissociati da quell’incredibile gesto di rinuncia alla politica ed esaltazione della violenza.

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Sostenitori di Trump. (Getty)

Questa destra estrema e populista non è più una setta

Può darsi che il voto del prossimo 8 novembre sia qualcosa di diverso dal solito cliché di una midterm qualsiasi. Certamente ci dirà quali sono i rapporti di forza fra un partito repubblicano che da 10 anni , dalle midterm del 2012 perse malamente da Barack Obama, domina soprattutto nelle elezioni per il voto locale, e un Partito democratico guidato dal presidente più anziano della storia presidenziale degli Stati Uniti. Non è una battaglia incominciata solo con Donald Trump e le sue stramberie. Una destra estrema, e già spesso ampiamente populista, ha sempre prodotto le sue teorie, anche al vertice del consenso liberal degli Anni 50 e 60, quando anche molti repubblicani sottoscrivevano una visione che oggi chiameremmo progressista. Ma era una setta. La perdita di prestigio dei “best and brightest”, della classe dirigente, incominciava con gli anni ’70, con il Vietnam. Solo negli anni 90 apparivano, fra i vari, due personaggi che davano peso al tutto, Pat Buchanan candidato presidenziale di nicchia che incominciava ad attaccare Nato, commercio internazionale senza limiti, interventismo, e poco dopo Newton Gingrich, neodeputato repubblicano che dal 1994 insegnava ai colleghi come andare alla giugulare e come togliere legittimità all’avversario e affermare visioni intransigenti, estreme, “nuove”. In realtà riscoprivano i miti repubblicani che avevano vinto negli Anni 20. Donald Trump ha incarnato con il suo narcisismo una cultura politica che già prima di lui aveva fatto suoi danni vendendo un “nuovo” che era incapace di definire. Seguiamo con attenzione il voto di novembre, ci dirà probabilmente a che punto è arrivata l’America quasi quanto una elezione presidenziale.