Chi sono davvero e come vivono i giovani? Come colmano il male di vivere Generazione Z e Millennials? Lo raccontano due romanzi molto diversi tra loro: Ultimo stadio di Francesco Negri e Iperborei di Pietro Castelitto.
La Milano di Ultimo stadio: tra curve, droghe e terrorismo
È una Milano cianotica, sull’orlo del collasso, quella che Negri, esordiente di belle speranze, racconta nel suo Ultimo stadio Transeuropa e 20142) in 283 pagine cattivissime e disilluse. In una città piegata in due dal Crocevirus, detto anche CROVID-19, seguiamo le vicende di tre giovanissimi, provenienti dalla estrema periferia, che si arrabattano tra furiose trasferte nelle curve degli stadi di mezza Italia, fanno un uso smodato di droghe e assaggiano saltuariamente i primi lavori precari. «Prima dell’epidemia bastava essere italiano e saper pronunciare due frasi in croce per farsi assumere da qualche parte. Posti di merda, senza dubbio: certe sere dovevo mordermi l’interno delle guance per non ribaltare l’ennesimo tavolo di ristorante che richiamava la mia attenzione fischiando, e quando mi svegliavo all’alba con i tendini della mano così anchilosati da non riuscire nemmeno ad avvitare la moka e dodici camion in attesa al deposito, consideravo la possibilità di sbrecciarmi col taglierino dopo due pallet pur di smettere. Eppure li preferivo a qualsiasi lavoro da intellettuale». A parlare è Tommaso, il protagonista e narratore della storia, un tipo che la mattina può scegliere indifferentemente di presentarsi a scuola a tradurre impeccabilmente la versione di greco o decidere di andare a prostituirsi per strada per poi poter rapinare il malcapitato cliente di turno. Le giornate scorrono così, proiettate una dopo l’altra, con l’autoreverse, fino a quando i tre non si mettono in mente di formare una cellula terroristica, a cui danno il nome di un analgesico, e iniziano a fare attentati in giro per la città.

Il romanzo manifesto della generazione trap
Grattacieli e chiostri universitari iniziano a esplodere, il Papa viene minacciato di morte, Giorgio Armani viene ritrovato dopo un lungo sequestro con un biglietto attaccato al polso con sopra scritto “ognuno può svanire”, 40 bambini tornano a casa dall’asilo tatuati su tutto il corpo con svastiche e fasci littori. Le azioni però invece di indignare raccolgono immediatamente le attenzioni della stampa che trasforma in breve tempo i tre in autentiche superstar: «Prenotavamo una suite e abitavamo 300 metri quadri sul tetto della città. Sborsavamo 500 euro di servizio in camera e giovani donne ci portavano ostriche e Charles Heidsieck alle cinque del mattino. Organizzavamo feste e venivamo invitati a tutte le cazzo di feste – a bordo di jet privati in volo sopra l’Oceano Atlantico o nel tramonto di terrazze affacciate sui Fori Imperiali, tra ereditiere inglesi eroinomani e rampolli di casate nobiliari più antiche dell’America». Basterà questo a salvarli da loro stessi? Già definito da molti il romanzo-manifesto della generazione trap – «ascoltavamo Estate in città e Dasein Sollen EP, prima che Marracash andasse a pranzo col sindaco e Rkomi si trasformasse nella versione trap delle sue calze arcobaleno» – forse Ultimo stadio può aiutare a comprendere parecchi dei fatti che hanno recentemente riempito le pagine delle cronache locali con gesta di frotte di liceali che via social si davano appuntamento in centro per menarsi e nel frattempo riprendersi con il telefonino o di ragazzi che hanno bloccato il traffico per partecipare al videoclip di qualche rapper, per poi bersagliare con sassi e bottiglie la polizia accorsa per riportare l’ordine.

In Iperborei Castellitto dipinge il vuoto di una generazione
Altra storia e soprattutto altra ambientazione è quella scelta da Pietro Castelitto per raccontare Roma con i suoi Iperborei (Bompiani). Esordio acclamato dalla critica, è stato, in sequenza, paragonato a Fitzgerald, Moravia e Bret Easton Ellis. Sono belli, giovani, drogatissimi e ricchi da far schifo i 30enni protagonisti di questo romanzo che si svolge tra lussuose ville con piscina ai Parioli ed estati trascorse su barche costosissime. Gli iperborei hanno tutto, ma non basta. Sono figli di papà viziati, con i libri di Nietzsche nel taschino, che mangiano patanegra, vestono abiti firmati e guidano auto di cui forse neppure conoscono il valore. Sono senza bontà, pentimenti, redenzione, moralismo. «Allora rimango qui, perché sempre è stato: vivere e non godersi mai nulla. Abbiamo un compito, noi. Un compito impossibile: distruggere, creare, distruggere», dice a un certo punto Poldo, l’io narrante della vicenda; un ragazzo con un passato oncologico alle spalle che ha imparato sulla propria pelle a scandire il tempo, attraverso il suono delle gocce che cadevano una dopo l’altra osservando la flebo da un letto d’ospedale. Il libro dipinge il vuoto generazionale di questi ragazzi in maniera impietosa. I dialoghi si susseguono in forma frammentata e l’assenza di contenuti è così totalizzante da lasciare interdetti. Lo stile narrativo delinea in modo impeccabile il vuoto dentro le parole che scorrono fra i protagonisti, e queste appaiono buttate lì solo per riempire uno spazio fra due silenzi. I valori tramontano e non conta più nulla. Le giornate scorrono tutte uguali tra: piranha nell’acquario al posto dei pesci, ricordi di determinate recite scolastiche capaci di rovinare una vita, dita mozzate, romanzi con in copertina spinelli infilzati nella cera, tentativi di annegamenti, suicidi, sesso vacuo. «Le stringo forte il culo affondando il naso nella nuca. Rimango un po’ nel buio e nel profumo, dove i capelli muoiono. “Amore”, sussurro, “andiamo a pippare”. E poi aggiungo: “Giallo…”. E lei aggiunge: ” Caldo…”. Finché un urlo ci riporta al mondo». Un romanzo bruciante, alla deriva, come i personaggi che racconta.