I 10 mila fantasmi di Urimqi 3

Nicolò Delvecchio
23/07/2021

Tanti sono i detenuti uiguri e di altre minoranze rinchiusi nel carcere più grande della Cina. Uno dei centri di rieducazione che il governo di Pechino ha declassato a prigione comune. Il reportage di Ap.

I 10 mila fantasmi di Urimqi 3

I detenuti uiguri erano seduti in file tutte uguali, con le gambe incrociate nella posizione del loto e la schiena dritta, numerata ed etichettata, guardavano una tv che trasmetteva immagini sgranate in bianco e nero della storia del Partito Comunista Cinese. A riportarlo l’Associated Press, prima testata occidentale in grado di entrare in un centro di detenzione dello Xinjiang, nell’ovest del Paese. I giornalisti dell’Ap hanno visitato il centro Urumqi 3 a Dabancheng, il più grande della Cina, che si estende su 89 ettari di terreno (il doppio del Vaticano) e sarebbe in grado di ospitare fino a 10 mila prigionieri, malgrado numeri ufficiali non siano stati forniti. All’edificio, come si vede dalle immagini satellitari pubblicate dall’agenzia americana, ne sono stati aggiunti altri nel corso degli anni.

La Cina, la guerra al terrore e la repressione degli uiguri 

Quattro anni fa Pechino ha iniziato una dura repressione (giustificata come «guerra al terrore») nei confronti delle minoranze cinesi per lo più musulmane, dopo attentati e accoltellamenti da parte di alcuni estremisti uiguri originari dello Xinjiang. L’aspetto più controverso di questa repressione è rappresentato proprio dai “centri di formazione professionale”, descritti dagli ex detenuti come dei brutali campi di internamento in cui si è sottoposti a violenze, torture e lavaggio del cervello per rigettare la propria cultura, e la propria religione, e imparare storia e tradizioni del Partito comunista. Più di un milione tra uiguri, kazaki e altri cinesi musulmani sono stati internati nel corso degli anni.

Se però è vero che la Cina ne ha chiusi alcuni, altri sono stati semplicemente convertiti in prigioni, o strutture di custodia cautelare, come quello Urumqi 3. Ne sono stati poi costruiti altri di nuovi, come quello da 34 ettari non lontano dal campo visitato dai giornalisti dell’Ap. In questo modo, trasformandoli in classiche carceri, Pechino può “legalizzare” i centri e continuare la repressione delle minoranze rispettando la legge. Restano i motivi assolutamente arbitrari per cui la gente viene incarcerata, dal portare con sé icone religiose allo scaricare sul cellulare app non consentite, come WhatsApp. Alcuni sono stati arrestati per essere andati all’estero.

Urumqi 3 era un centro di formazione, anche se Pechino lo nega

Durante il tour del campo 3, i funzionari hanno ripetutamente preso le distanze dai “centri di formazione” che Pechino afferma di aver chiuso. «Non c’era alcun collegamento tra il nostro centro di detenzione e quelli di addestramento», ha insistito il direttore dell’Ufficio di pubblica sicurezza di Urumqi, Zhao Zhongwei. «Non ce n’è mai stato uno qui intorno». Addirittura, i funzionari hanno anche affermato che Urumqi 3 è la prova dell’impegno della Cina per lo stato di diritto e per la riabilitazione dei condannati: ai detenuti sono forniti pasti caldi, gli viene consentito di fare esercizio fisico, sono assistiti legalmente e sono “aiutati”, attraverso videolezioni, a capire perché hanno sbagliato. I diritti sono protetti, dicono i funzionari, e solo i trasgressori devono preoccuparsi della detenzione.

«Un rapporto della Bbc diceva che questo era un campo di rieducazione. Non lo è, è un centro di detenzione», ha detto Liu Chang, un funzionario del ministero degli Esteri. Tuttavia le prove confermano che il n. 3 era davvero un campo di internamento. Un’immagine Reuters dell’ingresso, scattata nel settembre 2018, mostra che la struttura si chiamava “Centro di istruzione e formazione professionale di Urumqi”. I documenti pubblicamente disponibili raccolti da Shawn Zhang, uno studente di giurisprudenza in Canada, confermano che un centro con lo stesso nome è stato commissionato per essere costruito nella stessa posizione nel 2017. I registri mostrano anche che il colosso cinese Hengfeng Information Technology ha vinto un appalto da 11 milioni di dollari per l’allestimento del “centro di formazione” di Urumqi.

La vita in un centro per uiguri

La sala di controllo del centro è tappezzata di schermi, che coprono la stanza da parete a parete e riportano ciò che avviene in ogni cella. Un altro pannello, invece, è fisso su Cctv, la tv statale mostrata ai detenuti. «Controlliamo ciò che guardano», ha detto Zhu. «Possiamo vedere se infrangono i regolamenti, o se provano a ferirsi o uccidersi». Ma il centro trasmette anche delle lezioni video per insegnare ai detenuti lezioni sui crimini commessi: «Bisogna far capire perché non si uccide, e perché non si ruba».

Molti detenuti, secondo i loro parenti, sono stati condannati con accuse false, e gli esperti avvertono sulla poca trasparenza del sistema legale dello Xinjiang. Sebbene la Cina renda facilmente accessibili i registri legali, quasi il 90 per cento dei casellari giudiziari nello Xinjiang non sono pubblici. I pochi disponibili mostrano che alcuni sono accusati di “terrorismo” o “separatismo” per atti che pochi considererebbero criminali, come mettere in guardia i colleghi dal guardare porno, imprecare o pregare in prigione. Alcuni uiguri sono stati obbligati a firmare confessioni per quelle che le autorità definiscono “attività terroristiche”, anche se alcuni sono stati poi rilasciati. Altri no: i rapporti della polizia ottenuti da Intercept descrivono in dettaglio il caso di otto uiguri, arrestati per aver letto testi religiosi, installato applicazioni di file sharing o semplicemente per essere “persone inaffidabili“. Sono stati condannati da due a cinque anni di “studio”.