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Cattedre nel deserto

In Uganda, a causa della pandemia, diverse scuole private hanno chiuso. Gli insegnanti rimasti senza lavoro e stipendio hanno cercato altro e adesso non vogliono più tornare in classe.

1 Ottobre 2021 15:301 Ottobre 2021 17:52 Camilla Curcio
Il Covid ha costretto molte scuole private a chiudere e gli insegnanti, rimasti senza stipendio, hanno cercato nuove occupazioni. Uno scenario che mette in seria crisi la riapertura degli istituti e il ritorno fra i banchi degli studenti

L’ultimo contatto che Mary Namitala ha avuto con la scuola privata per cui insegnava risale a marzo dello scorso anno. Con un sms, la presidenza le comunicava che l’istituto avrebbe chiuso a causa del Covid e lo stipendio non le sarebbe stato corrisposto fino all’eventuale riapertura. «Dopo quella comunicazione, mio marito e io abbiamo deciso di lasciare l’appartamento in città che avevamo affittato e trasferirci nel villaggio vicino», ha raccontato al Guardian. «Non potevamo più sostenere le spese». Ritrovatasi da un giorno all’altro disoccupata, è stata costretta a mettere in pausa l’insegnamento. «Mi sono dedicata all’agricoltura per poi rivendere i prodotti del mio orto e del mio pollaio», ha aggiunto, «Non credo proprio che abbandonerò questo nuovo business per ritornare a fare la professoressa». La sua storia non è un’eccezione. A causa della pandemia, in Uganda sono numerosi i docenti degli istituti privati a cui è stata negata una retribuzione durante il lockdown. E, altrettanto numerosi, quelli che, trovata una carriera alternativa, hanno manifestato il desiderio di non rientrare più in classe. Uno scenario che sta mettendo a dura prova la sopravvivenza di elementari, medie e licei.

La crisi delle scuole private in Uganda

Gli ultimi report mostrano come, sul territorio ugandese, il 40 per cento delle scuole primarie e il 60 per cento di quelle secondarie siano gestite da privati, generalmente organizzazioni religiose, enti di beneficenza e imprese, senza alcun finanziamento da parte delle amministrazioni locali. La loro principale fonte di guadagno è il pagamento delle tasse scolastiche, in grado di coprire tutti i costi, compreso il salario di maestri e professori, che si aggira tra i 350mila e gli 880mila scellini al mese (tra i 100 e i 250 dollari). Il panorama è abbastanza variegato: alcune offrono un’ottima formazione e vantaggi non indifferenti, altre sono nate chiaramente solo come macchine da soldi, altre ancora, invece, sono state aperte e fondate da famiglie o comunità in aree dove quelle pubbliche sono troppo lontane. L’avvento del virus le ha messe in ginocchio: i genitori hanno smesso di versare la retta, le casse si sono gradualmente svuotate e il corpo docenti non è stato più pagato. Al contrario di quanto, invece, è accaduto negli istituti gestiti dal governo, che ha continuato a sostenere economicamente i propri dipendenti anche durante lo stop.

Il Covid ha costretto molte scuole private a chiudere e gli insegnanti, rimasti senza stipendio, hanno cercato nuove occupazioni. Uno scenario che mette in seria crisi la riapertura degli istituti e il ritorno fra i banchi degli studenti
Studenti in classe in una scuola in Uganda (Getty Images).

Insegnanti alla ricerca di un’alternativa per sopravvivere

La necessità di sostenere la propria famiglia ha spinto Namitala e i suoi colleghi a intraprendere percorsi diversi, lasciando molte scuole private senza il personale necessario per riaprire. Sono state centinaia quelle che, negli ultimi mesi, sono state messe in vendita a causa delle pressioni delle banche per colmare i ritardi nel versamento degli affitti o del totale disinteresse dei proprietari. «Due dei miei insegnanti si sono arruolati nell’esercito. Tanti altri sono ritornati nei paesi d’origine. Quando riapriremo, molti edifici non avranno personale perché chi c’era prima non si farà più vedere», ha dichiarato Robert Kimenya, preside di un istituto comprensivo vicino Kampala. È il caso, ad esempio, del 30enne George Wakirwaine. Che, non potendo più permettersi di vivere nella capitale, si è spostato con la moglie e le figlie nel villaggio della sua famiglia. È lì che ha iniziato a distribuire acqua potabile di casa in casa in cambio di una minima ricompensa in denaro. «Sto cercando soluzioni per sopravvivere. Mi rattrista dover lasciare la mia professione». Ovviamente, c’è anche chi non mette in conto la diserzione e, in parallelo, ha intenzione di portare avanti anche il secondo lavoro come piano B in caso di eventuali intoppi. Come Racheal Namugaya che continuerà a insegnare ma terrà aperto il suo banchetto di primizie al mercato. È stata anche una delle poche fortunate a ricevere, dalla scuola, fondi per continuare a pagare l’alloggio in cui vive e, occasionalmente, scorte di cibo: «Non chiuderò baracca. Assumerò qualcuno che possa darmi una mano tra una lezione e l’altra e proverò a gestire entrambe le cose». 

Difficilmente le scuole riapriranno

Al momento, la probabilità che gli istituti scolastici riaprano, nonostante le lamentele dei sindacati e dell’Unicef, è davvero molto bassa. I vertici stanno spingendo lo staff a vaccinarsi prima di rimettersi a lavoro ma sono più dell’80 per cento i prof che non hanno neppure ricevuto la prima dose. Per ora, tutto rimarrà chiuso fino al mese di gennaio. Gli oltre 15 milioni di bambini sparsi per il Paese dovranno ancora aspettare parecchio prima di ritrovarsi tra i banchi e ricominciare, finalmente, a studiare a pieno regime.

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