Negli ultimi giorni è continuata la schizofrenia tra Stati Uniti e Ucraina sulla possibilità e la tempistica di un’invasione russa: se da una parte l’allarmismo è ufficialmente giustificato con una guerra d’informazione fatta apposta per mettere pressione a Mosca ed evitare così il conflitto, dall’altra la relativizzazione di un pericolo imminente è spiegata con la necessità di evitare un inutile panico che faccia il gioco della Russia e smorzare la tensione e l’incertezza che incidono sulla già preoccupante situazione economica. Il lavoro della diplomazia internazionale e i contatti diretti tra il presidente ucraino Volodymyr Zelensky e quello statunitense Joe Biden non hanno però finora ridotto le dissonanze tra Kiev e Washington, tanto più che anche in Ucraina non c’è, né c’è mai stata, una visione unica per risolvere il duello con la Russia che si protrae da oltre otto anni.

La guerra nel Donbass, gli accordi di Minsk e i nodi irrisolti
Alla fine di febbraio del 2014 ci fu il cambio di regime, dopo il bagno di sangue di Maidan, la fuga del presidente Victor Yanukovich, seguita dall’annessione della Crimea e dall’inizio della guerra del Donbass. Il 15 febbraio del 2015 vennero poi firmati a Minsk, in Bielorussia, gli accordi sigillati da Francia e Germania che avrebbero dovuto riportare la pace nel Sud-est del Paese. Ora, con il rischio di un allargamento del conflitto sono venuti al pettine tutti i nodi mai sciolti da allora. E con essi le differenze all’interno della politica ucraina, mai veramente in grado di esprimere un linea unitaria e costante nei confronti del Cremlino, le cui posizioni di forza non sono mai mutate.

Le divisioni interne alla politica ucraina
Per uscire dallo stallo ed evitare pericolose degenerazioni l’ultima proposta è saltata fuori due giorni fa da Vadim Prystaiko, ambasciatore ucraino a Londra ed ex ministro degli Esteri, che ha suggerito una presa di posizione neutrale dell’Ucraina con la rinuncia all’avvicinamento alla Nato. Una concessione fatta ovviamente sotto la minaccia russa che ha mandato su tutte le furie in primo luogo l’ala nazionalista a Kiev, da quella relativamente più moderata che fa capo a Petro Poroshenko, ex capo di Stato e leader del maggior partito d’opposizione filoccidentale, alla destra più radicale dei partiti e dei movimenti che costituiscono la variegata galassia anti-russa e filo-statunitense. Anche Zelensky ha chiuso subito la questione, ricordando che comunque la priorità per l’ingresso nell’Alleanza atlantica, pur fissata nella Costituzione, non è all’ordine del giorno. L’episodio è però significativo perché evidenzia come in Ucraina, anche all’interno dello schieramento governativo (Servitore del popolo, 242 deputati), le posizioni siano differenti. Se a queste poi si aggiungono quelle dell’opposizione, che va appunto da Poroshenko (Solidarietà europea, 27 deputati) a Yulia Tymoshenko (Patria, 25 deputati), passando per le formazioni e i gruppi dentro e fuori la Rada, il parlamento di Kiev, che fanno riferimento ai vari poteri forti dell’oligarchia economico-finanziaria, si capisce come in realtà non ci sia un approccio unitario nell’affrontare il vasto spettro delle questioni con la Russia. Il maggiore partito d’opposizione in assoluto è poi la Piattaforma filo-russa che fa capo a Yuri Boiko (44 deputati), erede del Partito delle regioni di Yanukovich, prima formazione nell’Est del Paese, la cui voce è isolata e mai trova spazio nella narrativa univoca dei media occidentali.

Zelensky e Poroshenko ostaggi della destra ultra-nazionalista
Zelensky e il suo predecessore Poroshenko sono inoltre impegnati in una faida che ricalca altri esempi del passato, quando la giustizia è stata utilizzata per eliminare avversari politici ed è il sintomo di un sistema che non è riuscito a liberarsi dagli schemi della distribuzione del potere negli ultimi 30 anni. La cosa non sarebbe problematica se non ci fosse però una guerra dietro l’angolo. Paradossalmente poi l’oligarca Poroshenko è accusato di alto tradimento per aver fatto affari con i separatisti filo-russi nel Donbass nei primi anni della sua presidenza. Entrambi da un parte sono stati e sono ostaggio dell’ala della destra radicale ultra-nazionalista, numericamente in minoranza, ma molto potente quando vuol farsi sentire dentro e fuori il parlamento, che di fatto ha bloccato qualsiasi progresso nell’implementazione della parte politica degli accordi di Minsk (dialogo e autonomia nel Donbass). Dall’altra hanno avuto e hanno negli Stati Uniti un alleato che ha lasciato pochi spazi di manovra autonoma, gestendo di fatto il cordone della borsa che tiene a galla l’economia ucraina. Alla fine dei conti l’Ucraina sta nel bel mezzo di un duello tra Russia e Stati Uniti che la riguarda direttamente, ma non può decidere del proprio destino, tra una pluralità di voci inascoltate e quella di Washington che comanda.
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