Crisi ucraina: le giravolte M5s su Nato, Russia e Cina

Giovanni Corneliani
22/02/2022

Anti-Putin poi filo russi. Nato-scettici poi atlantisti e fedeli alleati di Washington. Cina sì poi Cina forse. Le piroette del M5s in politica estera che in questi anni hanno diviso la base. E il partito.

Crisi ucraina: le giravolte M5s su Nato, Russia e Cina

Sono ormai tali e tante le piroette del M5s sullo scacchiere geopolitico internazionale (e non soltanto su quello) che quasi viene il mal di testa a ricordarle tutte: un balletto frenetico sulle traiettorie tra Nato e Russia, Usa e Cina, Israele e Iran, Venezuela e Paesi arabi. L’ennesimo segno della difficoltà strutturale del Movimento a conciliare pulsioni e ideali delle origini con esigenze di Realpolitik da partito di governo. Per carità, è vero che gli scenari mutano, prendi il caro-energia globale, e che “solo i morti e gli stupidi non cambiano mai opinione”, citando il poeta americano James Russell Lowell. E tuttavia fa davvero impressione, rievocando come i cinque stelle un tempo si opposero, l’ultima spettacolare correzione di rotta sul gasdotto Tap (Trans adriatic pipeline) a opera del sottosegretario agli Esteri Manlio Di Stefano, che pure nella giravolta da pattinaggio olimpico sul ghiaccio ha cercato di non farsi notare. «È una questione di contesto storico differente», ha detto infatti a Repubblica.

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Di Stefano, Di Battista e i putiniani Robert Shlegel e Sergey Zheleznyak nel 2016.

Così Putin si è trasformato da nemico a possibile alleato

Sempre guardando a Est, ha fatto discutere pochi giorni fa anche l’ennesima presa di posizione di Beppe Grillo, con un post a firma del consulente politico Danilo Della Valle, contro la narrazione «russofoba» che impererebbe in Italia circa le vicende ucraine. È vero che da anni il comico genovese si manifesta con uscite favorevoli verso Mosca e Pechino, ma non è stato sempre così. In principio, nel 2006, sul sacro blog si ricordò persino Anna Politkovskaja come una vittima del potere alla stregua di Giacomo Matteotti e allora Putin non era certo tratteggiato quale statista democratico. Poi le cose sono via via cambiate, tanto che nel 2016 lo stesso Di Stefano, da deputato della commissione Esteri, gioì per l’invito ricevuto da Russia Unita in occasione del congresso del partito dello zar Vlad. Amici di Mosca, qualche occhiolino strizzato alla Cina e naturalmente nemici giurati della Nato: era questa l’impostazione del M5s d’assalto. Così ancora Di Stefano, sul blog di Grillo, nel gennaio 2017 tuonava: «Siamo ostaggio della strategia della tensione contro Mosca», infatti la «Nato gioca con le nostre vite», dunque bisogna «sottoporre al giudizio degli italiani la nostra permanenza nell’Alleanza Atlantica». Insomma, un referendum contro l’organizzazione sulla scorta di quello proposto da Grillo contro l’euro.

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Il segretario di Stato Antony Blinken con il ministro degli Esteri Luigi Di Maio (Getty Images).

La svolta atlantista di Di Maio e il bilanciamento del putinismo di Salvini 

Eppure, da lì a pochi mesi sarebbe cambiato tutto, almeno nella prima linea del Movimento. L’era Di Maio iniziò proprio in quel 2017 che preparava il terreno alla vittoria alle Politiche del marzo successivo e il futuro ministro degli Esteri stava via via intensificando i suoi contatti diplomatici con ambienti americani. Già in aprile fu posto al voto degli iscritti il nuovo programma M5s che per la parte esteri puntava a riformare la Nato (ergo: non si usciva più dall’Alleanza), denunciando comunque l’impatto ambientale delle basi e delle esercitazioni militari, ma anche la scarsa trasparenza di gestione rispetto alle esigenze delle comunità locali. Successivamente, la svolta filo-atlantica di Gigino fu sempre più decisa: gli Usa apprezzarono e la strambata servì pure a rassicurare l’opinione pubblica italiana in vista della scalata a Palazzo Chigi, mentre la base 5 stelle assisteva prima basita e poi iniziando a masticare amaro. Oggi Di Maio è ben allineato dietro Draghi, viaggia tra Mosca e Kiev predicando la pace e la via diplomatica, ma addirittura sentenzia: «Per entrare nella Nato servono standard cui l’Ucraina ora non corrisponde». Tuttavia, già dopo il voto del 4 marzo 2018, durante la lunga e faticosa fase delle consultazioni che portarono alla formazione del governo gialloverde, fu l’allora capo politico pentastellato a tranquillizzare Mattarella: il M5s sarebbe stato il garante dell’impostazione atlantista del nascente esecutivo italiano e avrebbe bilanciato le pulsioni putiniane di Matteo Salvini. Tema reso delicatissimo, allora, dalla questione siriana che nel frattempo era riesplosa con la controffensiva di Assad, sostenuto da Mosca.

Beppe Grillo e l’allergia atlantista

Così, mentre lo stesso programma elettorale stellato finiva tra le polemiche per qualche presunto e furtivo ritocchino post voto, in modo da renderlo più presentabile alle cancellerie euroatlantiche, il solito Di Stefano si produceva in inediti equilibrismi sulla situazione siriana, molto distanti dalle stentoree declamazioni di un tempo. E puntualmente si ritrovava subissato dalle proteste di attivisti e lettori dei suoi post. Grillo, tuttavia, non ha mai seguito la svolta filo-Usa della sua creatura, anzi. Mentre in Parlamento molti esponenti cinque stelle (ma non tutti) hanno abbracciato perinde ac cadaver la nuova impostazione. Ecco che Luca Frusone, membro M5s della commissione Difesa della Camera e soprattutto presidente della delegazione italiana all’Assemblea parlamentare della Nato, nell’ottobre 2019 diceva a Formiche: «L’aderenza dell’Italia all’Alleanza Atlantica non si discute». Esattamente due anni dopo, a maggior ragione, ribadiva: «I rapporti Nato-Ue devono essere sinonimo di cooperazione».

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Giuseppe Conte e il premier cinese Li Keqiang nel 2019 (Getty Images).

Di Maio e Conte folgorati sulla nuova Via della seta

Certo, poi è successo anche che nel frattempo Di Maio abbia firmato con la Cina l’intesa per la nuova Via della seta, malvista dalla Casa Bianca e giudicata da molti un tappeto rosso srotolato sotto i piedi del Dragone, pronto a mettere le mani sulla nostra economia. L’accordo “One belt one road” fu siglato durante il governo gialloverde e confermato con convinzione da quello giallorosso, tanto che Giuseppe Conte stesso se lo intestò da premier nel nome del multilateralismo e delle potenzialità economiche di scambio e di investimento che generava per l’Italia. Malgrado ciò, anche su quel dossier si assistette l’anno scorso a una inopinata inversione a U costellata di attacchi e mille polemiche allorché l’avvocato del popolo, non più premier e già leader in pectore del M5s, decise di disdire all’ultimo momento la sua visita all’ambasciatore cinese in Italia, Li Junhua, al seguito di Beppe Grillo. I legami tra il garante e Pechino, si sa, arrivano da lontano, ma le critiche (anche interne) misero una pressione fortissima addosso a Conte che decise di mollare la presa e non andare. Morale della favola? Il M5s si agita e si disunisce, è il caso di dirlo, tra un padre nobile e una base che non amano posizioni troppo schiacciate su Washington e un ceto politico che invece offre sempre il braccio per analisi del sangue sulla purezza filo-occidentale. Nel mezzo, malcapitati esponenti come Fabio Massimo Castaldo cercano anche in questi giorni di barcamenarsi, auspicando la pace a Est senza avallare «una visione dicotomica delle tensioni in cui vi è una parte che rappresenta “il male” e l’altra che invece incarna “il bene”».

La coerenza ‘immacolata’ di Di Battista

Fa naturalmente eccezione il buon Alessandro Di Battista, che si è messo fuorigioco per tempo così da poter salvaguardare la propria immacolata coerenza. Infatti, nel gennaio 2016, spiegava al Manifesto il significato del convegno “Se non fosse Nato”: «Dopo tanti anni di sudditanza psicologica e militare, l’Italia deve tirare su la testa. Essere alleati degli Stati uniti non significa essere sudditi. La Nato nasce in un momento di profonda divisione fra i blocchi occidentali e sovietici e come organizzazione di mutuo soccorso e difesa. Ma, negli ultimi 20 anni si è trasformata in uno strumento di offesa di popolazioni e governi che, anche se non ne condividono gli obiettivi non possono essere buttati giù dalle bombe Nato». Mentre il 15 febbraio scorso, come fosse passato un giorno e non sei anni, denunciava: «La sudditanza alla Nato è diventato un dogma e chiunque, oltretutto nonostante i fallimenti in Afghanistan, in Iraq, in Siria (senza mai dimenticare i vergognosi bombardamenti su Belgrado), osi metterla in discussione, viene trattato da eretico o bollato come filo-Putin o filo-cinese». E oggi su Facebook scrive: «La Russia non sta invadendo l’Ucraina. Poi, per carità, tutto può accadere ma credo che Putin (e non solo) tutto voglia fuorché una guerra». E ancora: «La Russia, giustamente, chiede garanzie riguardo la neutralità futura dell’Ucraina. Un’eventuale entrata (oggi impossibile ma domani chissà) dell’Ucraina nella NATO rappresenterebbe una minaccia inaccettabile per Mosca. Come inaccettabile (tant’è che si arrivò a rapidi negoziati) fu l’istallazione di impianti missilistici sovietici a Cuba, a poche centinaia di km dalla Florida, nell’ottobre del 1962».

 

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