Rullo marziale di tamburi, colpi secchi, precisi, alternati al charleston, ta-ta-ta, pausa, ta-tu, pausa, ta-ta-tu-ta-ta-tu, ta-ta-ta, pausa, ta-tu, pausa, ta-ta-tu-ta-ta-tu, la cassa che batte i quarti. Ripetere due volte. All’inizio del terzo giro parte un arpeggio di chitarra. Tutto molto iconico. È l’intro di Sunday Bloody Sunday, probabilmente il momento più riconoscibile della musica degli U2, e altrettanto probabilmente l’intro di batteria più famoso di tutti i tempi. Nella versione dal vivo, quella di Under a red blood sky a partire è la voce di Bono che grida: «This song is not a rebel song, this song is Sunday Bloody Sunday». Iconicità, appunto. Ecco, prendete quel momento lì, assurto a puro mito, e toglietelo, cancellatelo, lasciando che Sunday Bloody Sunday diventi altro. Così succede nel quarto capitolo di Songs of Surrender, la raccolta con cui gli U2 rileggono il proprio repertorio, più o meno lo stesso titolo della autobiografia di Bono (Surrender: 40 Songs, One Story). E proprio Bono è il titolare del quarto capitolo, quello che ospita il brano che proprio quest’anno compie 40 anni.
Gli U2 e il peso di avere alle spalle quasi 50 anni di carriera
L’idea di avere alle spalle quasi 50 anni di carriere pesa, lo si capisce ascoltando le varie rivisitazioni, spesso acustiche, decisamente meno epiche, perché l’epicità è una delle caratteristiche principali del suono degli U2, sempre che sia possibile parlare di suono e non di suoni, come se ne esistesse solo uno. E il solo modo per scrollarsi di dosso questo peso è provare a scombinare le carte in tavola, anche a discapito della propria identità, anche a discapito dell’efficacia. Per questo, anche per questo, ecco l’idea di muoversi come biglie impazzite, non necessariamente seguendo il percorso migliore. Ecco Bono a gigioneggiare con la propria autobiografia, The Edge a gigioneggiare con gli arrangiamenti dell’antologia, Adam Clayton a farsi i fatti propri, come nei passati 50 anni, Larry Mullen Jr fuori dai giochi, vai a capire se per qualche tempo o in via definitiva. Ecco le interviste, con dichiarazioni choc, come quando Bono un annetto fa ha detto che trovava imbarazzanti alcune canzoni della sua band, trovava imbarazzante anche il nome della sua band. E le indiscrezioni ex post, come la volontà mai del tutto sopita di lasciare il gruppo come un Jack Frusciante qualsiasi. Infine ecco il documentario in uscita per Disney+, che vede la presenza dei soli Bono e The Edge, come a indicare una via futura, e rivendicare una paternità che sia più paternità rispetto a quella della sezione ritmica, come se mai la sezione ritmica abbia avuto paternità di qualcosa, nel rock. David Letterman veste i panni della guida turistica, non solo e non tanto nella verde Irlanda che, Dublino nello specifico, degli U2 è casa, quanto piuttosto nel loro ottovolante, un ottovolante che ha già girato in tondo per qualcosa come sei decenni, dalla fine degli Anni 70 fin qui. Titolo del tutto Bono & The Edge: A sort of Homecoming.

Il successo negli Anni 80 con Pride e con The Joshua Tree
Ecco, cosa sono gli U2 oggi, e cosa lo sono stati nel passato. Quante cose sono state gli U2. Partiti in piena era post-punk, quando era la new wave, in nomen omen, a dominare la scena britannica, gli U2 sono diventati una band di fama mondiale nella metà degli Anni 80, prima con Pride (in the name of love), ma soprattutto col successo incredibile di The Joshua Tree, With or without you a tirare la volata. A quel punto, già rivolti agli Usa sotto la guida di Brian Eno – per qualche tempo membro aggiunto ad honorem della band, lui che aveva già plasmato col suo gusto la carriera di David Bowie come quella di parte della scena no wave americana, Talking Heads in testa, e Daniel Lanois – ecco che arriva quella full immersion assoluta nelle radici del rock’n’roll che risponde al titolo di Ruttle and Hum, l’epicità del suono che si sposa con una certa grandeur anche imponente, gli stadi, le collaborazioni definitive, penso a Dylan come a B.B. King. Una specie di sbornia, a dirla tutta, muscolare come le braccia scoperte di Bono, visibili grazie ai gilet di pelle indossati a torso nudo.

Achtung Baby, l’elettronica e l’immaginario post Muro
Giusto il tempo di superare l’hangover, caffè e limone suggerirebbe oggi il Marco Mengoni di Due vite, ed ecco che di nuovo con Brian Eno e Daniel Lanois gli U2 sparigliano le carte, stavolta in maniera quasi violenta. È la volta infatti di Achtung Baby, disco che decisamente sposta l’asse musicale su fronti più slegati dalla tradizione, in qualche modo andando a costruirne una nuova. Un lavoro che gioca con l’elettronica, anche, e che imbastisce tutto un immaginario post-caduta del Muro di Berlino. Il tutto sarà registrato agli Hansa Studios di Berlino, occhialoni da mosca neri e giubbotti in lattice al posto di quelli da cowboy esibiti in precedenza. Album, questo, che con il successivo Zooropa toccherà forse il punto più alto della carriera dei nostri, sia a livello musicale, di questi tempi è per dire la megahit One, sia da quello dell’immaginario, McPhisto, le telefonate in diretta ai grandi della Terra, i duetti con Lou Reed via Zoom quando ancora Zoom manco esisteva, tutto guarda in una direzione decisamente futuribile.

La metamorfosi di Bono in attivista globale e i sospetti di paraculismo
Nel mentre, e qui arrivano quelle che lo stesso Bono definirebbe dolenti note, Bono è diventato un personaggio globale, di quelli che appunto va a colloquio con i grandi della Terra a parlare del debito del terzo mondo, di ambiente, di guerra. Questo suo fare, in qualche modo, mette la band in secondo piano, e soprattutto lo accomuna a persone che lui stesso definirà più di recente come «assai distanti ai valori del gruppo». Da questo momento gli U2, fino ad allora una della band più amate al mondo, sicuramente al pari di Nirvana e R.E.M. (parlo almeno di coloro nati tra gli Anni 60 e 70), scivolerà in una zona assai poco confortevole, quella di chi è guardato sempre con sospetto, come se dietro ogni azione fosse prevista anche un tocco di paraculismo, un tornaconto personale pronto a spuntare fuori prima o poi. La musica proseguirà, certo, senza più picchi verso l’alto, certo con altri grandi successi, hit planetarie, ma che a differenza di quanto accaduto almeno fino a Pop, non indicherà più una strada nuova da seguire, limitandosi seguire una strada già segnata, da loro stessi o addirittura da altri (sorte questa che li fa accomunare a Madonna, almeno a livello discografico).

L’autocelebrazione con l’antologia Songs of Surrender e lo speciale di Bono e The Edge
Ora arriva il momento delle autocelebrazioni, e quindi vai di autobiografia, di mega-antologia, di special tv con tanto di David Letterman, non il primo che passa, a fare da Virgilio, lo spauracchio di una qualche sfaldatura nel tessuto fin qui rimasto intatto, dietro l’angolo. Se infatti Larry non è della partita, a questo giro, l’assenza di Adam e il rivendicare, da parte di Bono e The Edge, un qualche soverchiante ruolo maggioritario all’interno della band è lì, sotto gli occhi di tutti. Songs of surrender, l’antologia, è per altro molto interessante, perché le canzoni degli U2 spogliate da quei suoni che gli U2 hanno così sapientemente tirato fuori negli anni e rivestite di note più minimali ma sempre e comunque molto alla U2, specie alla The Edge, hanno un fascino decisamente potente. Come del resto ce l’ha la voce di Bono, oggi più scura di prima, come graffiata. Se il futuro vedrà la band diventare un duo è presto per dirlo, come non è da escludere che prima o poi, dopo passi falsi come la connessione con casa Apple o tamarrate come l’inno ai Mondiali fatto con Garrix, gli U2 non tornino a tirare fuori qualcosa di seminale, così si diceva nelle riviste specializzate un tempo di quei brani e quei dischi che avrebbero aperto varchi sonori poi praticati da molti, laddove fino a quel momento c’era una fitta selva irta di spine.
