Di solito, i tycoon più potenti del mondo adorano essere accostati a squali senza pietà pronti a fiutare le loro prede nel grande oceano globale degli affari. A causa di uno spirito combattivo, ostinato e inflessibile, i suoi più stretti amici hanno invece scelto un altro animale per descriverlo: un bulldog. A Tsai Eng Meng, ottavo uomo più ricco di Taiwan, patrimonio stimato 6,2 miliardi di dollari, il paragone è piaciuto tantissimo. Al punto da aver fatto piazzare il gigantesco dipinto di un bulldog di Boston nell’atrio del quartier generale di Shanghai di Want Want, l’azienda di snack che controlla dal 1987. Si dice in realtà che il soggetto ritratto nel quadro sia il cane che Tsai possedeva durante l’infanzia, un bulldog di nome Happy, che starebbe a simboleggiare la fiducia ma anche la resilienza, visto che la bestiola sarebbe riuscita a riprendersi dopo un brutto incidente. In ogni caso, per anni Mr. Tsai non è stato solo uno dei più ricchi, ma il businessman più ricco in assoluto dell’isola, oggi sotto i riflettori per le tensioni geopolitiche tra Cina e Stati Uniti.
Il giovane Tsai a 19 anni bruciò subito 3 milioni di dollari
L’energico 66enne ha trasformato il gioiello di famiglia, la citata Want Want, in uno dei più grandi produttori di cracker di riso e bevande aromatizzate al mondo. La società, fondata nel 1962 nella contea di Yilan, a Taiwan, dal padre Tsai A-Shi, operava inizialmente con il nome di I Lan Foods Industrial Company Limited e produceva cibo in scatola. Il giovane Tsai, appena 19enne, si offrì di dirigere un’azienda alimentare per conto del padre, il quale non aveva più modo e tempo di occuparsi di quell’attività. Pronti, via: l’impatto con la realtà fu durissimo. Senza nemmeno sapere cosa fosse un bilancio, il ragazzo perse più di 100 milioni di dollari taiwanesi (poco più di 3 milioni di dollari), una somma con la quale all’epoca era possibile acquistare quasi 700 appartamenti a Taipei. Agli occhi di conoscenti e familiari, quel fallimento aveva trasformato Tsai da giovane fiducioso a una sorta di zimbello. «Ero così depresso che quasi volevo uccidermi», ricordò il diretto interessato, nel 2009, alla rivista Business Week.

Il magnate che ha studiato fino alle scuole medie
L’episodio avrebbe invece fortificato il futuro magnate, rendendolo ancora più determinato a lottare per raggiungere il successo. A differenza della maggior parte degli altri miliardari taiwanesi, che hanno accumulato le rispettive ricchezze mettendo a frutto i loro studi, e impegnandosi nel settore dell’hi-tech, delle comunicazioni e dei servizi finanziari, il percorso di Tsai è stato singolare. Intanto perché ha sempre considerato l’andare all’università come una perdita di tempo, e poi perché ha in tasca soltanto il titolo di licenza media. Grazie a una situazione familiare benestante, a una volontà d’acciaio e a trovate intelligenti, il piccolo anatroccolo è stato in grado di trasformarsi in un cigno. Nel 1981, Tsai ebbe l’idea di fare buon uso del surplus del riso taiwanese per produrre cracker di riso e sviluppare quel mercato sull’isola. Ebbe poi un autentico colpo di genio per creare un nuovo prodotto: i Senbei, cracker a base di farina di riso giapponese, e cioè qualcosa di assolutamente non convenzionale per l’epoca in cui si svolsero i fatti.
La svolta: collaborare con la giapponese Iwatsuka
Nel 1977, infatti, la maggior parte dei cracker taiwanesi veniva realizzata con farina di frumento e richiedevano poco tempo per essere realizzati. Tsai sapeva benissimo chi aveva la formula perfetta per creare lo snack Senbei per eccellenza: la giapponese Iwatsuka Confectionery Company, uno dei primi tre produttori nipponici di cracker di riso. Il futuro “bulldog degli snack” iniziò così a inviare decine e decine di lettere all’azienda per proporre una collaborazione. Non ricevette risposta, fino a quando scelse di visitare l’azienda di persona. Keisaku Maki, l’allora presidente della Iwatsuka, dopo due anni di corteggiamento alla fine cedette e acconsentì al dialogo con la I Lan Foods. Nel 1983 le due realtà iniziarono ufficialmente a collaborare per creare il Senbei definitivo. Nacquero il Senbei Rice Cracker e lo Shelly Senbei Rice. Iwatsuka ricevette in cambio il 5 per cento delle azioni della società taiwanese; una quota che, nel 2009, raggiunse i 350 milioni di dollari, quasi tre volte il valore di mercato dell’azienda giapponese, fermo a 125 milioni.

Want Want, più di 120 fabbriche sparse in 26 province
Il business dei cracker di riso divenne un grande successo per Tsai, che trasformò astutamente il prodotto anche in una delle offerte più popolari da recapitare alle divinità buddiste e taoiste. Nel 1992, quando l’azienda aveva conquistato l’85 per cento del mercato taiwanese dei cracker di riso, l’allora 35enne decise di investire nella terraferma. «Non parlo inglese, e se non andassi sulla terraferma, dove altro potrei andare?», ha spiegato quando gli è stato chiesto cosa avesse partorito la sua decisione. Fu un’altra mossa perfetta. Dall’apertura della sua prima fabbrica a Changsha, nella provincia cinese dello Hunan, nel 1994, l’impero commerciale di Mr Tsai oltre la Muraglia crebbe di anno in anno, fino a raggiungere più di 120 fabbriche sparse in 26 province. Con il vento in poppa e un successo in crescita, Tsai decise di semplificare la dicitura della sua creatura da I Lan Foods Industrial Company Limited a Want Want.
Quel nome che richiama l’inglese “one by one” e il verso di un cane
Perché questo nome? Pare che a Tsai venne in mente in una mattina come tante altre, immaginando che i clienti sgranocchiassero i suoi cracker uno dopo l’altro, senza sosta. Want Want – che si pronuncia Wang Wang – era facile da ricordare, e per di più richiamava vagamente la dicitura inglese “one by one“, “uno dopo l’altro” appunto. L’uomo d’affari si presentò quindi in un tempio per capire se la mossa potesse essere fortunata. All’interno della struttura era presente un cane in adorazione e, come se avesse ricevuto un messaggio divino dal cielo, Tsai assimilò foneticamente l’abbaiare della bestiola al nome da lui scelto. In mandarino, il suono dei latrati dei cani è molto simile alla pronuncia di “Wan-旺”, un carattere cinese che rappresenta la prosperità. Grazie a questa ispirazione, Tsai fece evolvere I Land Foods in quello che sarebbe diventato uno dei marchi più rinomati al mondo: Want Want.

Gli affari in Cina grazie alla manodopera a basso costo
In breve, l’ex imprenditore adolescente trasformò il produttore di cracker di riso in un impero di snack. Nel 1989 Want Want fu la prima azienda di Taiwan a chiedere di registrare un marchio sul territorio della Mainland, e cioè in Cina, proprio in un periodo storico nel quale i decenni di tensione tra le due parti stavano iniziando ad allentarsi. «Il momento era giusto, la posizione era vantaggiosa e le persone erano in armonia», ha risposto una volta Tsai, citando un’espressione cinese, a chi gli chiedeva le ragioni della scelta. Dietro ai detti popolari e alle espressioni filosofiche, c’era però un ragionato calcolo economico. Il governo cinese si stava aprendo, attirava investimenti stranieri proponendo terreni a prezzi convenienti e offriva una manodopera a basso costo, oltre a una concorrenza interna pressoché nulla, in un mercato potenzialmente immenso. Anziché puntare sulle grandi metropoli di Shanghai e Pechino, nel 1992 Tsai scelse di puntare su Changsha, in particolare sul distretto di Wangcheng, un nome che alle orecchie dell’imprenditore dette vita ad una specie di Want City, la città di Want Want.
L’espansione verso latte, caramelle e dolcetti surgelati
All’inizio fu un autentico disastro. «Non sapevamo cosa stavamo facendo», ha dichiarato Tsai ricordando i primi anni. L’azienda aveva difficoltà a farsi pagare e la logistica era pessima, anche se i clienti cinesi iniziarono a divorare i cracker di riso Want Want con gusto, in parte per il loro sapore e poi perché in Cina non c’era concorrenza. Superati gli ostacoli iniziali, la società spostò gradualmente l’attenzione sui bambini (e sui loro genitori) e divenne un colosso. Ancora oggi non ha rivali oltre la Muraglia, dove controlla l’80 per cento del mercato dei cracker di riso e derivati. Nel corso degli anni, l’azienda ha preso possesso del 40 per cento del mercato del latte aromatizzato, del 30 per cento del business delle caramelle morbide ed è diventata anche il più grande produttore cinese di dolcetti surgelati aromatizzati su bastoncini.

Tra il 2020 e il 2021 ricavi aumentati del 9,5 per cento
Il logo presente sui prodotti Want Want raffigura Hot Kid, un ragazzo bianco sorridente, in versione cartoon, vestito con una semplice canottiera gialla e blu, che tiene lo sguardo rivolto verso l’alto; è di fatto la mascotte dell’impero di Tsai e, all’ingresso del quartier generale dell’azienda ne troviamo l’immagine raffigurata in un logo in oro puro da quasi 35 chilogrammi. Su alcuni snack compaiono anche altre figure, come Yappy, un cane ispirato ad Happy, l’animale domestico al quale era tanto legato Tsai da ragazzo. Il compito di queste creature è semplice: promuovere cracker di riso, bevande allo yogurt, dolci gommosi e altri prodotti. Tra il 2020 e il 2021, i ricavi di Want Want sono aumentati del 9,5 per cento, a 3,4 miliardi di dollari, così come l’utile netto, salito del 14 per cento, a quasi 600 milioni di dollari.
L’impero dei media e l’appoggio forte all’unificazione
Want Want genera l’80 per cento delle sue vendite totali da piccole imprese, come minimarket e negozi a gestione familiare; dato ancor più importante per capire la strategia aziendale, soltanto il 3 per cento dei suoi prodotti vengono venduti al di fuori del mercato cinese. Ecco perché Tsai è così legato alla Repubblica popolare cinese. Non è un caso che viva stanzialmente a Shanghai, insieme alla famiglia – una moglie e due figli – e sia un forte sostenitore dell’unificazione tra Taiwan e la Cina. «Che vi piaccia o no, prima o poi l’unificazione avverrà», dichiarò nel 2012 al Washington Post, salvo poi aggiustare il tiro per smorzare il boicottaggio del popolo taiwanese nei confronti dei suoi snack e dei suoi media, sostenendo che la citazione era stata «distorta e estrapolata dal contesto». Già, perché Want Want nel frattempo aveva subito l’ennesima mutazione, diventando un conglomerato a tutti gli effetti. Tra il 2008 e il 2009, Tsai acquistò tre media di Taiwan – China Times, China Television (Ctv) e CtiTv – in un portafoglio che poteva ospitare anche hotel, ospedali e proprietà immobiliari.

L’accusa di voler plasmare l’opinione pubblica taiwanese
È presto finito nell’occhio del ciclone, accusato di aver investito nel settore mediatico (oggi possiede tre giornali, una stazione televisiva, varie riviste e due reti via cavo) nel tentativo di plasmare l’opinione pubblica taiwanese. I critici sostengono che le testate giornalistiche e le emittenti da lui controllate promuovano spudoratamente legami sempre più stretti tra Taipei e Pechino. Quando il China Times pubblicò un articolo che definiva il principale negoziatore diplomatico cinese sull’isola «di terza categoria», l’autore del pezzo fu licenziato in tronco. I giornalisti, avrebbe poi spiegato Tsai in un’intervista, sono liberi di criticare, ma «devono riflettere attentamente prima di scrivere» ed evitare insulti che possano offendere. Il giornalista licenziato, ha proseguito, era uno scrittore di talento, ma «mi ha ferito offendendo le persone, non solo i cinesi continentali. Le persone si sono offese».
Ingraziarsi il Partito comunista cinese per portare avanti i suoi affari
Want Daily, un tabloid lanciato da Tsai nel 2009, ha inoltre fornito per anni un riassunto quotidiano di storie, per lo più allegre, sulla Cina e sui vantaggi per Taiwan di istituire una più stretta cooperazione con Pechino. Questi e altri episodi hanno alimentato le proteste di una parte dell’opinione pubblica taiwanese, secondo cui Tsai vorrebbe ingraziarsi il Partito comunista cinese (Pcc) per portare avanti i suoi affari. L’imprenditore ha sempre negato, spiegando di voler solo aiutare la sua terra natia a superare la diffidenza nei confronti della Cina. «È molto democratica in vari aspetti. Molte cose non sono come pensano le persone dal di fuori», ha spiegato una volta riferendosi alla Cina, aggiungendo che Pechino «va costantemente avanti» mentre Taipei «progredisce molto lentamente».

Finanziamenti da Pechino in cambio della propaganda
Want Want, intanto, ha dovuto affrontare ripetute accuse di avere stretti rapporti con il Pcc e aver addirittura ricevuto “ordini di servizio” da Pechino, o meglio dall’Ufficio del governo cinese a Taiwan. Nel 2019 Wang Liqiang, una presunta spia cinese che ha disertato in Australia, ha affermato che alcuni dei media del gruppo di Tsai, come China Television e Chung Tien Television, hanno ricevuto finanziamenti cinesi in cambio della messa in onda di storie sfavorevoli al governo taiwanese, con il chiaro tentativo di influenzare le elezioni presidenziali 2020 dell’isola. Indiscrezioni, voci e accuse respinte in toto dal conglomerato. «Ho già i miei soldi. Perché dovrei andare a prendere i loro?», continua a ripetere Tsai in risposta alla voce dei presunti finanziamenti ricevuti dagli alti funzionari comunisti.
In Cina l’azienda dà lavoro a più di 50 mila persone
Il conglomerato ha tuttavia ricevuto milioni di dollari di sussidi dal governo cinese, in maniera del tutto legale e in linea con le leggi di Taipei, come del resto accaduto anche ad altre compagnie taiwanesi (come Foxconn, la fabbrica degli iPhone). Certo è che qualcuno ha iniziato a preoccuparsi visto che l’obiettivo di Want Want, come si poteva leggere in una vecchia brochure aziendale del gruppo, consisteva nel rendere China Times «il quotidiano in lingua cinese più influente» in modo da informare il pubblico e «promuovere la pace e l’armonia attraverso lo Stretto». Pur essendo una società taiwanese, Tsai ha comunque trasferito la maggior parte delle operazioni di Want Want in Cina, dove l’azienda dà lavoro a più di 50 mila persone – rispetto alle poche migliaia rimaste operative a Taiwan – conta oltre 400 uffici commerciali – contro i due presenti sull’isola – e lavora spalla a spalla con 9 mila distributori locali.

Jet aziendale dipinto di un rosso vivo che ricorda una bandiera…
«Want Want ha bisogno di bocche. Taiwan ha solo 23 milioni di abitanti. La Cina ne ha più di un miliardo. La cosa più importante è che il mercato continentale sia così grande», ha dichiarato l’imprenditore sottolineando di essere concentrato solo sulla vendita del cibo e non sulla politica. Intanto Tsai possiede un jet aziendale dipinto di un rosso vivo – che ad alcuni ricorda la bandiera della Repubblica popolare cinese – con il quale, di tanto in tanto, fa spola tra le due sponde dello Stretto. Le prossime elezioni presidenziali di Taiwan sono intanto dietro l’angolo. E l’altra Tsai, Tsai Ing Wen, presidentessa dell’isola, spera che William Lai, il candidato del suo partito, il Partito democratico progressista, possa aver la meglio su Hou Yu Ih, l’uomo del Kuomintang e del dialogo con Pechino.