È mai possibile, oggi, nel 2023, scansare un tormentone? Quando l’idea è nata, negli Anni 60 – non è dato sapere chi per primo abbia usato esattamente questo termine che contiene in sé l’idea di qualcosa di particolarmente potente, quell’accrescitivo lì, sì, ma anche di estremamente negativo, un tormento, in assenza d’estasi qualcosa di cui dolersi – i tormentoni occupavano militarmente i pochi media a disposizione, non c’erano che due canali televisivi, che per altro non trasmettevano ancora 24 ore su 24, e non esistevano, neanche nei libri di fantascienza, le radio private, figuriamoci le web radio o i social. Certo, in assenza di concorrenza i pochi canali di comunicazione avevano una sorta di strapotere, tutti abbiamo sentito da genitori o nonni il racconto di come le famiglie si riunissero nelle poche case con la tv per seguire, che so?, il Festival di Sanremo come, più avanti, i varietà del sabato sera, ma c’erano comunque altri mezzi che in qualche modo veicolavano e attestavano lo status di tormentone di una canzone: i famosi jukebox che si trovavano nei bar e nei luoghi preposti alla vita sociale, non a caso poi divenuti strumento per attestare il successo di alcune canzoni grazie all’invenzione del FestivalBar. Alcuni di questi tormentoni, canzoni entrate nel tessuto della nostra cultura popolare, ancora oggi riscuotono un certo successo, laddove vengono riproposti in feste di piazza o nei vari revival televisivi, penso alle canzoni di Edoardo Vianello, da Abbronzatissima a i Watussi, per dire, a riprova che se una canzone arriva arriva.

La moltiplicazione dei tormentoni: ora potremmo chiamarli piaghe o flagelli
Nessuno pretendeva che quelle canzoni trasmettessero messaggi, anche perché spesso all’epoca i messaggi nelle canzoni non c’erano proprio, e anche quando, anni dopo, un messaggio subliminale in fondo poteva pur esserci, come il parlare di postnucleare in epoca di Guerra fredda, parlo di Vamos a la playa dei Righeira, non era certo per quello che si eleggeva a tormentone un brano invece che un altro (ben lo spiega Fabio De Luca nel suo Oh Oh Oh Oh Oh- I Righeira, la playa e l’estate 1983, da poco in libreria per i tipi di Nottetempo). Si potrebbe azzardare, ma non in questa sede, una sorta di cronologia degli ultimi decenni passando di tormentone in tormentone, provando a ripercorrere il concept di un altro grande libro da poco arrivato in libreria, stavolta per i preziosi tipi di Jimenez, Musica è storia di Questlove, anche se nel tomo scritto dal batterista dei The Roots non è certo di tormentoni in quanto tali che si parla. E lo si potrebbe azzardare perché, in genere, ogni anno è stato storicamente caratterizzato da uno, massimo due o tre tormentoni. Fossero stati di più, immagino, li avrebbero chiamati in altra maniera, che so, flagelli o piaghe, come quelli biblici che tormentavano il popolo egizio, reo di non aver aiutato il Popolo di Dio. Da qualche tempo, diciamo che Dio, o chi per lui, ha preso a tormentare noi umani tutti con altre piaghe, le pandemie, le guerre, i cambiamenti climatici con tutte le conseguenze del caso. Certo tutte faccende che da noi uomini sono partite o partono, ma che comunque noi umani siamo pronti a imputare a Dio o chi per lui con la solita sfacciata naturalezza con cui chi compie qualcosa di sbagliato è poi abilissimo a trovare un colpevole pronto a vestire i panni del capro espiatorio Malaussène molto meno letterario di quello concepito da Pennac. Di tormentoni, musicali, ne sono cominciati a spuntare fuori ogni anno a decine, come le lumache un tempo dopo una pioggia (non cito i funghi perché troppo banali, anche se a ben vedere parlare di piogge laddove si citano le piaghe sembra forse fuoriluogo, oggi). Ogni anno, recentemente, una ipotetica gara al tormentone più lungo, un tempo lì a contendersi FestivalBar, oggi un PowerHits Estate come un altro, è diventata una sorta di Parigi-Dakar, con un numero spropositato di concorrenti, ma che comunque vede attraversare il traguardo assai più contendenti di quanti le impervie strade che hanno dovuto percorrere lascerebbe pensare.

La moda imperante nel 2023 è quella del duetto, in modo da sommare più fanbase
E siccome oggi la gara non si gioca più dentro i jukebox nei lidi o nei bar, ma sulle piattaforme di streaming, che poi è anche il solo posto dove i singoli possono ambire alla vetta delle classifiche, la moda imperante del tormentone è quella del duetto, del featuring, della collaborazione, perché mettere insieme più fanbase concede, è scontato e ovvio, più chance di uscirne vincitori. Il fatto che ad attestare questo successo – si tratti di PowerHits Estate di RTL 102,5, come i Music Awards di casa Rai, di volta in volta TIM, Wind o Seat, a seconda dello sponsor – siano media tradizionalissimi quali la radio e la televisione non fa che attestare un paradosso nel paradosso: i media tradizionali rincorrono i nuovi media, cioè coloro che li stanno dilaniando senza pietà, invece che star lì a erigere palizzate provando una qualche forma di difesa basata sulla differenziazione, ma questi sono altri discorsi. Di fatto ogni estate assistiamo a un elenco sterminato di brani a multipla firma, sia in fase di composizione e scrittura che di esecuzione, la cui ambizione è quella di diventare pezzo dell’estate, quasi sempre canzoni con ritmi caraibici, il reggaeton su tutto, che vedono alcuni nomi della nostra canzone a vestire i panni dei mattatori ricorrenti. Penso a Baby K, a Giusy Ferreri, ai Boomdabash, tanto per fare qualche nome, con tutte le variabili del caso. Canzoni destinate, per citare il brano che viene indicato da tutti come il primo tormentone, a essere cancellate dalla prima onda, come qualcosa di scritto sulla sabbia – Nico Fidenco da lassù perdonali non sanno quello che fanno – ma che durante l’estate fanno il loro sporco lavoro, ci tormentano, appunto.

Da Mengoni & Elodie a Tananai & Marracash, fino a Annalisa, Articolo 31 e Fedez
Quest’anno il menu è come sempre ricchissimo, si fa per dire, da Mengoni con Elodie, in Pazza Musica, a Annalisa, che si divide tra la sua Mon Amour e la collaborazione, ormai un classico, con Fedez e Articolo 31 (con Disco Paradise) passando per i Boomdabash, sempre loro, con Paola e Chiara, la loro Furore ancora lì a fare il proprio lavoro.
Tananai, campione di questi ultimi mesi, anche grazie alla La dolce vita portata in vetta alle classifiche l’estate scorsa con Fedez e Mara Sattei, stavolta con Marracash; Sangiovanni e Mr Rain nella loro cover-non cover di Panico di Lazza, titolo La fine del mondo; Zef e Marz, che sono due dei producer che meglio si sono mossi negli ultimi anni, che con la loro Tilt propongono l’inedita collaborazione tra Elisa e La Rappresentante di Lista (la cui Ciao Ciao è stata tormentone dell’estate scorsa). Rovazzi e Orietta Berti, paura, a giocarsela non si sa bene da che parte a metà strada tra il divertimento e il cringe. Lascerei da parte, per una questione di qualità, anche se potrebbero loro malgrado diventare tormentoni, brani quali Agosto morsica dei Coma_Cose o Rubami la notte dei Pinguini Tattici Nucleari, luci nella notte.
Perché per una volta, nel silenzio, non decidiamo noi quando e dove ascoltare musica?
Insomma, ce n’è per tutti i gusti, anche se quasi sempre, siamo in estate, la parola gusto sembra non troppo coerente con l’argomento trattato. Sostenere che la troppa scelta possa portare a lasciarsi scivolare addosso tutto può suonare troppo ottimistico, del resto chiunque di noi avrà passato una serata a cercare di scegliere un film tra le troppe proposte di una Netflix, andando poi a letto senza aver visto nulla. Resta sempre l’idea steampunk di scegliere dove e quando ascoltare la musica, senza che ci accompagni in ogni singola fase della giornata, bye bye streaming, bye bye radio in auto, bye bye a tutto quello che non sia un ascolto di quelli di una volta, in salotto, lo stereo acceso, le tapparelle chiuse, e zitti tutti, non deve volare neanche una mosca.