Tom Barrack, una delle figure più vicine all’ex Presidente degli Stati Uniti Donald Trump e conosciuto in Italia come manager che per un periodo ha esercitato una forte influenza sulle attività turistiche della Costa Smeralda, è stato arrestato il 20 luglio a Los Angeles con l’accusa di aver svolto attività di lobby per conto degli Emirati Arabi Uniti. Nello specifico, di averlo fatto senza essersi registrato secondo le norme che impongono l’iscrizione presso il Foreign Agents Registration Act (Fara), un registro istituito presso il ministero della Giustizia che comprende quasi 500 intermediari, tra cui le principali società di lobbying, che agiscono per nome e conto di soggetti stranieri. Il caso di cronaca ripropone il tema delle interferenze di potenze straniere nella politica di uno Stato. Si tratta di un’attività che storicamente e con modalità diverse è sempre esistita, in forme più o meno lecite. In passato, si sono utilizzati agenti provocatori, diffusi pamphlet e libelli (quelle che oggi sono le fake news), si è ricorso alla corruzione e financo ad alleanze matrimoniali tra le case regnanti o all’organizzazione di colpi di Stato o al finanziamento di rivoluzioni.
La vera questione è la mancanza di trasparenza
Restringendo il campo alle forme di lobby lecite condotte da uno Stato nei confronti di un altro, si rileva che tale attività è in forte crescita come conseguenza di un mondo sempre più globale e interconnesso in cui le relazioni economiche si fanno sempre più stringenti, per cui emerge il bisogno di “immischiarsi” negli affari di un altro Stato a protezione e tutela dei propri interessi commerciali e di business. Sembra verosimile ipotizzare che una tale attività venga svolta, soprattutto da Paesi “critici” (ma non solo), i cui governi hanno un forte controllo sulle attività economiche e spesso non sono pienamente democratici. Questi Paesi, come dimostra il caso di Barrack, preferiscono appoggiarsi, per favorire il business domestico, a figure prive di un qualunque ruolo istituzionale ufficiale ma vicine al potere del Paese di destinazione, piuttosto che ai canali diplomatici normali, in quanto la contiguità con il potere permette di raggiungere più facilmente gli interlocutori chiave, bypassando vincoli protocollari e procedurali tipici della diplomazia. Come detto, non ci sarebbe nulla di illecito o di illegale, se a fronte di un chiaro mandato professionale, un intermediario tutelasse gli interessi di uno Stato estero. La questione vera è però la trasparenza, e sarebbe assolutamente necessaria l’iscrizione a un registro speciale dei rappresentanti di interesse che permetta di capire quali Paesi fanno lobby in altri Stati e soprattutto quali e quante decisioni di politica estera o di politica economico-commerciale siano il risultato di pressioni esterne, in particolare provenienti da governi non alleati, e quali siano i tornaconti e gli interessi in gioco.
L’Italia dovrebbe seguire l’esempio degli Stati Uniti
Anche l’Italia dovrebbe seguire l’esempio degli Stati Uniti istituendo una sorta di registro per chi fa lobby per conto di Paesi stranieri per far emergere zone grigie e poco trasparenti. L’urgenza del tema sembra essere sempre più pressante anche a seguito delle evidenze degli ultimi anni soprattutto per quanto riguarda i rapporti con la Russia, la Cina e i Paesi del Golfo, solo per citare gli esempi più eclatanti, in cui nostri concittadini privi di un qualsiasi ruolo istituzionale, ma vicini al potere hanno seguito l’esempio di Barrack.