Se fosse una partita di calcio, si direbbe che il consiglio di amministrazione di Tim del 4 maggio ha calciato la palla in tribuna per guadagnare tempo. Offerte di Kkr e Cdp-Macquarie respinte ai mittenti con l’invito, ed è la seconda volta, a un ulteriore rilancio. Quello definitivo, perché tertium non datur. Il 9 giugno è la scadenza ultima: o si conclude o si lascia perdere e si imboccano altre strade. Sì, ma quali?
Tornare all Stato? Lo scopriremo solo Vivendi
I destini dell’ex monopolista dei telefoni sembrano ancora avvolti nella nebbia, preda di una sorta di commedia dell’incomunicabilità in cui si muovono i protagonisti senza mai trovare un punto d’incontro. Il riassunto delle puntate precedenti è presto fatto: l’attuale maggioranza di governo, quando ancora si era in piena campagna elettorale, ha fatto sapere che la dorsale dell’infrastruttura delle tlc doveva tornare allo Stato, com’era prima della sciagurata (visti gli sviluppi) privatizzazione del 1997. Facile a dirsi, più difficile a farsi visto che la società ha un azionista di riferimento francese, con una quota che basta da sola a bloccare di fatto le decisioni più rilevanti.

Cdp ha montato un’offerta, ma di malavoglia
I termini del contendere erano chiari sin dall’inizio: da un lato la Vivendi del finanziere bretone Vincent Bolloré, che ha fissato il valore della rete a 31 miliardi, facendo capire che di fronte a un’offerta di 25 se ne sarebbe potuto parlare. Dall’altro due aspiranti compratori. Il fondo americano Kkr, che il dossier Tim lo conosce bene visto che quando ancora a guidarla c’era Luigi Gubitosi si era fatto avanti con una proposta (per la verità molto aleatoria salvo che nella determinazione del pezzo) di Opa. E Cassa depositi e prestiti in tandem con gli australiani di Macquarie, che si muovono di concerto, la prima su invito “spintaneo” del governo che la considerava imprescindibile da qualsiasi ipotesi di pubblicizzazione. L’ente di via Goito, dopo aver nicchiato e fatto sapere più volte attraverso i giornali amici di non avere i soldi, alla fine di malavoglia ha montato un’offerta. Per entrambe, fatte salve le differenti tecnicalità, siamo intorno ai 20 miliardi.

Un profluvio di annunci e il paradosso comico del governo
Differenza abissale rispetto a quanto vorrebbe il venditore, cosa che sapevano tutti sin dall’inizio. Tutti meno il governo, che non si capisce in base a cosa si è subito sbilanciato sul buon esito dell’operazione. Ci sono decine di dichiarazioni e interviste, fatte dallo scorso autunno in poi, in cui si dava per concluso entro l’anno il passaggio della rete dai privati alla mano pubblica. Siamo a maggio dell’anno successivo, non è successo nulla, e sulla surreale trama continuano ad aleggiare le incognite. Con in più qualche paradosso comico, sempre l’esecutivo protagonista: dopo il profluvio di annunci dove la conclusione sembrava una passeggiata, con tanto di vertiginosi saliscendi del titolo in Borsa, che se ci fosse anche in Italia un’autorità che sorveglia i mercati si rischiava l’aggiotaggio, il governo per bocca del suo ministro delle Imprese Adolfo Urso se ne esce bel bello dicendo che un esecutivo saggio non si intromette nella dialettica tra azionisti e aspiranti compratori. Ma sanno ciò che fanno e soprattutto ciò che dicono ? Forse no.

Meloni sembra non avere la più pallida idea di come muoversi
Risultato: Palazzo Chigi da attore diventa spettatore, con il fondato rischio che Tim si trasformi in un’altra Alitalia o Montepaschi, una situazione le cui premesse peraltro anche l’esecutivo Draghi aveva contribuito a creare. Con i francesi da un po’ non parla più nessuno, come se il loro 24 per cento del gruppo telefonico contasse nulla ai fini del buon esito della vicenda, e tutto si potesse risolvere dentro le mura dei palazzi romani. Il governo non ha la più pallida idea di come muoversi, i pretendenti – almeno uno di loro – si mostrano disponibili a un rilancio la cui entità, salvo sorprese, sarà comunque tale da non soddisfare le condizioni poste da Vivendi. E nessuno sembra seriamente prendere in considerazione la possibilità, per via dell’alto indebitamento, di procedere con lo strumento più trasparente di tutti: l’offerta pubblica sulla società. Anche perché, vista la presenza del Golden power, sarebbe impensabile poterlo fare senza un previo via libera del governo.

Un altro mese per evitare contraccolpi difficili da assorbire
Cosa restava da fare se non calciare la palla in tribuna e prendersi un altro mese? Intricata matassa, di cui a questo punto Palazzo Chigi dovrebbe prendere il bandolo e provare a sciogliere. Le prove sin qui fornite da ministri competenti, sottosegretari delegati e capi di gabinetto sono di sontuosa inettitudine. Ma si può sempre sperare in un colpo d’ala. Non foss’altro che anche politici più avvezzi ai mercati rionali che a quelli finanziari possono arrivare a capire che lasciare andare Tim al suo destino provocherebbe per qualsiasi governo contraccolpi difficilmente assorbibili.