Un Telegram di coca
Partita dalla messaggistica, la app è diventata una zona grigia che spesso sconfina nell'illegalità. In chat si possono trovare Green pass falsi, materiale pornografico, droga e persino annunci di reclutamento jihadista.
C’è chi usa Telegram per chattare e chi per ricevere notizie o offerte dai canali cui è iscritto. Altri ancora, magari, lo hanno scaricato tempo fa e si ricordano di averlo solamente quando ricevono la notifica «Contatto X si è unito a Telegram», e Contatto X spesso è una persona conosciuta in spiaggia 10 anni prima e mai più risentita. Fondata nel 2013 dai programmatori e imprenditori russi Nikolaj e Pavel Durov, l’app ha raggiunto nel 2020 i 500 milioni di utenti attivi in un mese. Nel 2006 i due avevano già creato Vk, il social network più popolare in Russia e Ucraina. La società ha sede a Dubai, e Pavel è stato inserito da Forbes al 112 esimo posto tra gli uomini più ricchi del pianeta, con un patrimonio stimato di 17 miliardi di dollari.
Puoi condividere il tuo schermo nelle videochiamate 1 a 1 e in quelle di gruppo. La condivisione include anche l'audio dal tuo dispositivo, per le riunioni, i video musicali e i meme multimediali. #TelegramTips pic.twitter.com/EphNsPGJAK
— Telegram in Italiano (@telegram_it) August 11, 2021
Un successo che, però, ha un altra faccia della medaglia. L’app, infatti, viene utilizzata in molti altri modi, non sempre legali. È di questi giorni la notizia della truffa, fatta ai danni di alcuni no-vax che volevano a loro volta truffare lo Stato. La questione riguardava green pass falsi venduti anche a 300 euro e mai recapitati. Anzi, gli organizzatori di questo scherzetto hanno poi minacciato di diffondere le identità degli acquirenti alle forze dell’ordine se non avessero ricevuto altro denaro. Le molte funzioni di Telegram, come quella di poter scambiare messaggi, documenti anche audio e video e di effettuare videochiamate crittografate end-to-end (in modo che i messaggi non possano essere letti o visti da nessun altro, al di fuori delle persone che se li stanno scambiando), oltre alla possibilità di creare canali, gruppi segreti e messaggi che si autodistruggono, l’hanno resa l’app ideale per la condivisione di materiale illegale. Quasi periodicamente, infatti, si sente di canali chiusi per i motivi più diversi: per la diffusione di materiale pornografico, spesso usato come vendetta nei confronti delle ex compagne (revenge porn), o perché utilizzato da terroristi per organizzare attentati, o dai pusher per vendere droga. Pochi anni fa, poi, la Guardia di Finanza ne chiuse diversi che diffondevano gratis i giornali in formato pdf. Spesso, poi, è la stessa app ad “aiutare” la diffusione di questo materiale, ignorando le segnalazioni e lasciando che i contenuti passino di telefono in telefono. Telegram vieta la diffusione di materiale illegale, ma solo se visibile pubblicamente. La maggior parte di questi gruppi, invece, sono privati, si accede attraverso invito e sono molto più difficili non solo da trovare, ma anche da chiudere.
Telegram e il revenge porn
Nel 2020 l’osservatorio PermessoNegato, una no-profit che si occupa del supporto tecnologico e di aiuto legale per le vittime di pornografia non consensuale e di violenza online, ha pubblicato un rapporto in cui evidenziava come, su Telegram, ci fossero almeno 89 gruppi o canali dedicati alla condivisione di questo tipo di materiale: un numero triplicato in appena cinque mesi, da maggio a novembre di quell’anno, e aggravato dalla pandemia. Se spaventa pensare a un centinaio di “calderoni” dedicati a questo scopo, ancora più sconfortante è vedere quante persone siano attive, oltre sei milioni. PermessoNegato ha poi inviato segnalazioni alla Interpol e alla stessa Telegram, ma l’app, «a differenza di altri servizi simili e social network, non risponde alle segnalazioni nostre e nemmeno a quelle della polizia postale», si legge nel report. E questo nonostante il revenge porn sia un reato dal 2019, previsto dall’articolo 612-ter del codice penale, che prevede la reclusione fino a 6 anni e la multa da 5 a 15 mila euro. A soffrirne sono nella stragrande maggioranza dei casi donne, spesso anche minorenni. Ad aprile 2020 fu la Polizia Postale a disporre la chiusura di tre canali privati, avvenuta senza la collaborazione di Telegram, che non fornisce nomi di amministratori e utenti di gruppi e canali.
Telegram e i gruppi islamici
Segretezza, discrezione e “omertà” hanno reso Telegram una piattaforma particolarmente utilizzata dai terroristi. I canali sono stati lanciati dall’app a novembre 2015, e le prime notizie sul loro uso da parte di gruppi jihadisti risalgono alla prima metà del 2016. Quelli erano gli anni dello Stato Islamico in Iraq e Siria, degli attentati a Bruxelles e Parigi, della nuova dimensione “social” del terrorismo nero (nel senso della jihad) e delle decapitazioni degli ostaggi in diretta. Nei canali segreti di Telegram era inoltrato materiale propagandistico per attirare sempre più affiliati, e sull’app venivano avviati progetti di raccolta fondi per l’acquisto di armi e attrezzature. Tra il 2017 e il 2018 uno studio della George Washington University mostrò come fossero circa 636 i canali Telegram attivi simpatizzanti dell’Isis, nonostante in quel periodo lo Stato Islamico iniziasse a perdere le sue roccaforti in Medio Oriente. In questi “contenitori” erano scambiati documenti per le operazioni militari, istruzioni su come costruire bombe e altri ordigni, discorsi dei leader ma anche meme, perché anche i seguaci della sharia vogliono ridere, ogni tanto. Nel 2015 l’app chiuse 78 canali legati all’Isis, l’anno dopo lanciò l’iniziativa Isis Watch per monitorare le attività vicine allo Stato Islamico. Nel dicembre 2018 furono anche ritrovati due canali per gli aspiranti jihadisti italiani, Ansar Khilafa fi Italia (Seguaci del Califfato in Italia) e Ghulibati a Rum (La Conquista di Roma): chiusi, sono prontamente rinati sotto altri nomi. Ma non bisogna pensare che questi messaggi vengano scambiati solamente nell’ombra: anche Hamas, il principale partito-milizia palestinese, ha un canale ufficiale e pubblico, in cui spesso vengono annunciate le operazioni militari. Israele era riuscito a ottenerne temporaneamente la chiusura durante gli scontri tra le due fazioni dello scorso maggio, ma dopo poco è tornato online. Dai canali dei leader, poi, è possibile accedere ai link per donare fondi – spesso sotto forma di criptovalute – all’organizzazione e ai suoi affiliati: nel 2020 gli Stati Uniti sono riusciti a bloccare un milione di dollari in moneta virtuale destinati ad Hamas.
Telegram e lo spaccio di stupefacenti
La pandemia e i lockdown hanno messo tutti in difficoltà, anche gli spacciatori. Che, per continuare a fare affari senza girare per le strade (e con i clienti tutti in casa) si sono dovuti reinventare su internet. A marzo, i Carabinieri di Bari hanno arrestato un 35 enne pugliese, dal nickname evocativo di Mister_Pablo Escobar, che dal canale Top Drugs Italia vendeva hashish e marijuana in tutto il Paese: pagamento in bitcoin, droga direttamente nella cassetta delle lettere. Servizi così ce ne sono tanti, molti canali sono pubblici e ancora attivi: «Il servizio di spedizione avviene tramite corriere certificato con un tempo variabile da 24 ore fino a 48 ore, fino a 72 ore per le isole. Possibilità di ritiro presso un ups point», si legge nella descrizione di uno di questi. Si paga in bitcoin – le icone dei gruppi non lasciano spazio all’interpretazione – e ci sono anche chat in cui recensire il prodotto, per assicurare una sorta di “servizio clienti”: «Arrivato in tre giorni come promesso, grandi!». Tutto pubblico e alla luce del sole.
Telegram e i giornali gratis
Infine, tra il 2019 e il 2021 sono stati chiusi, su iniziativa della Guardia di Finanza, oltre 300 canali che distribuivano gratuitamente le copie dei principali giornali nazionali. Ogni giorno, di mattina, arrivavano i pdf di quotidiani, settimanali e mensili, tutti gratis e direttamente su cellulare, tablet o pc. Adesso non sono più disponibili, ma il danno fatto a editori e lavoratori del settore è stato particolarmente importante, stimato dalla Procura di Bari (che ha iniziato l’inchiesta, poi allargatasi a livello nazionale) in 250 milioni di euro nel 2020.