Con la conquista delle città di Kandahar, Herat (seconda e terza più grande del Paese) e Ghazni, a 150 chilometri a sud di Kabul, i talebani controllano adesso due terzi dell’Afghanistan. La prima si trova a 500 chilometri dalla capitale, nella parte meridionale del Paese, la seconda è vicina al confine con l’Iran. Le forze jihadiste hanno assaltato le prigioni e liberato centinaia di prigionieri. L’ambasciata statunitense di Kabul ha invitato tutti i cittadini a lasciare il Paese al più presto. Come riporta Al Jazeera, il governo centrale ha proposto tramite il Qatar, Paese che modera le trattative di pace afghane, di dividere una «quota di potere» con i miliziani, a patto che le violenze si fermino. Oltre 77 mila famiglie in tutto il Paese sono state costrette a lasciare le proprie case.
L’ascesa senza sosta degli “Studenti di Dio” ha portato la capitale ad essere praticamente circondata da nord a sud. Due giorni fa, infatti, le milizie avevano occupato la città di Pul-e-Khumri, snodo fondamentale perché collega Kabul con il nord-est del Paese. Nel frattempo, il ministro delle Finanze Khalid Payenda si è dimesso e ha lasciato il Paese, il Capo di Stato maggiore è stato sostituito e nella città meridionale di Lashgar Gah, non lontana da Kandahar, le forze governative continuano a combattere da settimane pur essendo circondate da tutte le parti. In molti casi, l’avanzata dei taliban è resa possibile proprio dalla resa preventiva delle forze armate regolari, che scappano lasciando a disposizione dei miliziani armi, attrezzature ed equipaggiamenti vari.
L’Afghanistan e le responsabilità degli Stati Uniti
La situazione evidenzia ancora una volta come il ritiro delle truppe americane e occidentali dal Paese, iniziato a giugno, abbia di fatto consegnato l’Afghanistan ai talebani, la cui avanzata è stata più rapida del previsto. Non solo, perché i taliban pare abbiano già cominciato a parlare con la Cina, per assicurarsi fondi per la ricostruzione del Paese una volta che questo sarà tutto nelle loro mani. Resta da capire, quindi, se accetteranno la proposta del governo di condividere il potere o no. Al momento non sembra che questa opzione convenga: qualsiasi altro tentativo di mediazione è stato respinto – e per questo il numero uno dell’esercito è stato rimosso – e la conquista dei territori procede in maniera così rapida da rendere plausibile lo scenario di una repentina caduta di Kabul.
Per il Presidente americano Joe Biden si tratta della prima, e più importante prova internazionale della sua giovane presidenza. Arrivato alla Casa Bianca, l’ex vice di Obama dichiarò di voler completare il ritiro delle truppe dal Paese entro l’11 settembre 2021, a esattamente vent’anni dall’attentato alle Torri Gemelle da cui partì tutto. Il suo piano è stato completato con largo anticipo, ma è molto difficile considerarlo un successo. Eppure, nonostante un Afghanistan in mano ai talebani rappresenti una minaccia per tutti, il Presidente non sembra esserne troppo preoccupato: «Non rimpiango la mia decisione. Abbiamo speso un trilione di dollari in 20 anni, migliaia di americani sono morti. Abbiamo addestrato i loro soldati, adesso è arrivato il momento che siano i politici afghani a mettersi d’accordo per proteggere il proprio Paese», ha dichiarato. Lasciare repentinamente una nazione nelle macerie dopo due decenni di occupazione, nonostante il largo consenso della popolazione americana, a livello d’immagine internazionale non gioca a favore di Biden. Al momento, pare che gli americani stiano aiutando Kabul con dei raid aerei, ma la loro base operativa si è spostata in Qatar.
L’Europa e il problema dei rimpatri
Un Afghanistan instabile rappresenta un problema per tutti. Per i cittadini afghani, costretti a continuare a vivere in un Paese praticamente da sempre in guerra. Ma anche per l’Europa e l’intero occidente, che potrebbe rivivere presto l’incubo di uno Stato in mano alla jihad da cui far partire i propri attacchi. E non solo, perché la caduta di Kabul potrebbe spalancare le porte a una nuova, fortissima ondata migratoria. Quello di proteggere le frontiere europee sembra la prima preoccupazione di molti dei 28 Paesi del blocco, che anzi non sembrano curarsi particolarmente dell’avanzata jihadista nel Paese: l’11 agosto sei Stati membri (Germania, Paesi Bassi, Belgio, Danimarca, Austria e Grecia) hanno scritto una lettera alla Commissione europea chiedendo che non vengano sospesi i rimpatri forzati degli afghani che hanno richiesto – e non ottenuto – l’asilo in Europa.
«La situazione in Afghanistan è delicata», si legge nel documento, «ma è importante rimpatriare chi non ha reali esigenze di protezione». Argomentazioni che hanno provocato le dure reazioni di diverse Ong, tra cui Amnesty International. Lo sdegno ha spinto Berlino e L’Aia a sospendere i rimpatri, ma il ministro dell’Interno tedesco Horst Seehofer ha precisato che questi riprenderanno «non appena la situazione lo permetterà». La Commissione europea ha risposto definendo «improbabile» un’ondata migratoria simile a quella siriana del 2015 e chiedendo agli Stati di evitare drammi umanitari. Il tema resta caldo e rischia di ritornare di attualità molto presto.
Gli afghani accusano il Pakistan
Come riposta la Associated Press, molti afghani ritengono il vicino Pakistan responsabile, o quantomeno complice, dell’avanzata dei talebani nel Paese. Era stata proprio Islamabad a portare rappresentanti del gruppo al tavolo delle trattative per convincerli a fermare le violenze. Nonostante sia difficile trovare un legame diretto tra gli jihadisti e le autorità pakistane (la cui influenza è da alcuni analisti considerata “sopravvalutata”), è vero che molti talebani vivono, si addestrano e ricevono cure sul territorio pakistano. I figli dei miliziani vanno a scuola lì, molti hanno delle proprietà.
Per quanto però Islamabad provi in tutti i modi a respingere le accuse (il primo ministro Imran Khan ha ripetuto più volte che desidera la pace in Afghanistan ed è contrario alla conquista dei talebani), nella mente degli afghani sono proprio i vicini i principali responsabili della distruzione del Paese: «Posso dire apertamente che questa guerra non è tra talebani e il governo afghano, è la guerra del Pakistan contro la nazione afgana», ha detto alla Ap Ismail Khan, un signore della guerra di Herat. Se a questo si aggiunge che spesso i funerali dei talebani sono celebrati in Pakistan, e che nel 2020 proprio il primo ministro Khan aveva definito Osama bin Laden «un martire», per poi tornare sui suoi passi solo poche settimane fa, si capisce come gli afghani non riescano a liberarsi da questa idea. Anche perché in passato, soprattutto durante l’occupazione sovietica dell’Afghanistan (1979-89), Islamabad strinse stretti rapporti con le milizie.