Gli Stati Uniti interverranno militarmente in caso di attacco cinese su Taiwan. Questo, in sintesi, il pensiero espresso dal presidente statunitense Joe Biden nel corso di una conferenza stampa tenutasi a Tokyo, tappa centrale del suo tour asiatico. Tali affermazioni dirompenti – in grado di segnare la fine dell’ambiguità strategica americana nei confronti dell’isola – non sono nuove. Già lo scorso ottobre, infatti, il presidente aveva speso parole simili sull’impegno americano a difendere la sovranità dell’altra Cina. In entrambi i casi, la Casa Bianca si è affrettata a calmare le acque ribadendo che la posizione statunitense su Cina e Taiwan (cosiddetta One China policy) non cambia. Tuttavia, che si tratti di gaffe o strategia, il messaggio di Biden sembra chiaro: Taiwan non è l’Ucraina. L’isola, infatti, è al centro della competizione con Pechino considerata prioritaria da Washington. Non a caso, Biden ha più volte segnalato come la reazione occidentale in Ucraina serva da monito anche per la Cina. E proprio il timore di dover fare i conti con uno scenario ucraino in Asia-Pacifico potrebbe aver spinto il presidente a mostrare i muscoli. D’altronde, vi sono pochi dubbi sul fatto che le dichiarazioni del tipo «non moriremo per Kyiv» abbiano allentato la pressione su Mosca favorendone la decisione di attaccare. In questo contesto, le parole di Biden sembrano indicare che gli Usa non sono più disposti a giocare a carte scoperte concedendo vantaggi agli avversari. Al contrario, l’America vuole passare al contrattacco tornando a fare la voce grossa in Asia prima che sia troppo tardi.

L’Indo-Pacifico è la priorità degli States
Seppur distratti dalla crisi Ucraina, gli Stati Uniti non dimenticano le loro priorità. La principale tra queste da tempo, ossia da quando l’amministrazione Obama propose la svolta asiatica nota come pivot to Asia, si chiama Indo-Pacifico. Obiettivo degli Usa nella regione è quello di rilanciare i rapporti bilaterali e contrastare la crescente influenza cinese. Sullo sfondo, la necessità di isolare la Russia e impedire che si realizzi uno scenario da guerra fredda con due blocchi circondati da nazioni non allineate pronte a vendersi al miglior offerente. Per conquistare (di nuovo) la regione, di cui gli Stati Uniti si sentono parte integrante al pari della Cina, l’amministrazione Biden ha compreso la necessità di affiancare allo strumento militare una serie di iniziative diplomatiche ed economiche rapide e concrete.

Il ritorno nello scacchiere asiatico in tre mosse
Il ritorno degli Stati Uniti in Asia si è compiuto in tre mosse. Prima di tutto, l’amministrazione Biden ha organizzato un summit il 12 e 13 maggio a Washington con l’Associazione delle Nazioni del Sud-est asiatico (ASEAN). In questa occasione, oltre a celebrare i 45 anni di relazioni diplomatiche, gli Stati Uniti hanno annunciato lo sviluppo di un “partenariato strategico globale” da formalizzare il prossimo novembre. Questa mossa punta a mettere Usa e Cina sullo stesso piano dal momento che Pechino ha siglato un accordo analogo con l’ASEAN nel 2021. Successivamente, Biden si è recato in Corea del Sud dove a tenere banco sono la minaccia nucleare nordcoreana e gli investimenti negli Usa. In particolare, Biden ha colto l’occasione per parlare con i vertici Samsung pronti a investire 17 miliardi di dollari per produrre semiconduttori in Texas, e con quelli della Hyundai pronti a mettere sul piatto 5,5 miliardi per realizzare auto elettriche in Georgia. Infine, a Tokyo il 24 maggio si sono incontrati i leader del Quadrilateral Security Dialogue, il patto che lega Stati Uniti, India, Giappone e l’Australia del neoeletto premier Anthony Albanese. Un summit che ha offerto l’occasione per rilanciare un formato che finora ha prodotto più dibattito accademico che risultati tangibili, al quale Cina e Russia hanno risposto con una provocazione. Mentre Biden si trovava a Tokyo, infatti, quattro bombardieri russi e cinesi, con capacità nucleare, hanno sorvolato in formazione, per ben 13 ore, il Mar del Giappone e il Mar cinese orientale.

La risposta americana alle Vie della Seta
Il viaggio di Biden in Asia è servito anche per presentare agli alleati il piano economico dell’amministrazione per la regione. Terminata la parentesi protezionistica trumpiana, caratterizzata dai dazi e dal disimpegno americano dalla Trans-Pacific Partenrship, ora gli Usa sono pronti ad aprire una nuova fase nelle relazioni commerciali con l’Indo-Pacifico. In particolare, Biden ha proposto ai partner asiatici il cosiddetto Indo-Pacific Economic Framework (IPEF). L’accordo riguarda 13 nazioni – tra cui India e Indonesia – che insieme agli Usa valgono il 40 per cento del Pil globale. L’obiettivo dichiarato è quello di fermare lo strapotere commerciale cinese nella regione esemplificato dall’interscambio con l’ASEAN pari a 362 miliardi di dollari per gli Usa nel 2020, a fronte dei 684 del Dragone nello stesso anno. Tuttavia, i nobili intenti americani dovranno fare i conti con i limiti dell’IPEF. Non prevedendo un accesso privilegiato al mercato statunitense per i partner asiatici, infatti, tale strumento atipico è considerato da molti analisti come inefficace nel contrastare le strategie di Pechino.