La Cina combatterà per evitare l’indipendenza di Taiwan «costi quel che costi e fino alla fine». Con queste parole pronunciate dal ministro della Difesa Wei Fenghe allo Shangri-La dialogue, la tradizionale conferenza sulla sicurezza asiatica tenutasi a Singapore tra il 10 e il 12 giugno, la Repubblica Popolare ha ribadito una volta di più la sua linea. Sulla questione Taiwan, Pechino non ammette interferenze e il processo di riunificazione non può essere fermato «nemmeno con la forza». Un messaggio chiaro quello del generale cinese che ha destinatari precisi dall’altra parte del Pacifico. D’altronde, la Cina è molto preoccupata dal rinnovato attivismo statunitense in Asia-Pacifico e ha sfruttato il palcoscenico di Singapore per ribadirlo. Non meno duro era stato l’intervento del segretario alla Difesa americano Lloyd Austin in apertura di conferenza. Dopo aver ridimensionato la portata delle parole del presidente Biden sull’intervento militare in caso di attacco a Taiwan, Austin aveva condannato l’atteggiamento aggressivo della Cina e confermato il pieno sostegno alle capacità difensive dell’isola come previsto dal Taiwan Relations Act del 1979. Nel complesso, i due interventi hanno mostrato la consueta diversità di vedute sui principali temi regionali e, soprattutto, l’assenza di un qualsivoglia punto di contatto tra le rispettive strategie nazionali. Una dinamica che sembra preludere allo scontro.

Usa e Cina, interessi inconciliabili
Usa e Cina perseguono interessi diametralmente opposti in Asia-Pacifico. Da una parte, Washington mira a mantenere lo status quo, placando le rivendicazioni territoriali cinesi e difendendo la libertà di navigazione e sorvolo (Free and Open Indo-Pacific) che garantisce i commerci e la presenza delle forze armate americane nella regione. Dall’altra, Pechino reclama sovranità su territori che non controlla ma che considera cinesi e contesta la definizione stessa di Indo-Pacifico sposata dagli Usa perché “politica” e non inclusiva. Washington, dopo aver pubblicato a febbraio la Indo-Pacific strategy, ha rilanciato la politica di alleanze regionali attraverso i format AUKUS e Quad. Inoltre, l’amministrazione Biden si è riavvicinata al Sud-est asiatico organizzando il summit Usa-ASEAN e lanciando il progetto di integrazione economica denominato Indo-Pacific Economic Framework. Dal canto suo, la Cina ha proseguito con lo sviluppo della Belt and Road affiancandole la Global Security Initiative, una strategia per la sicurezza regionale che guarda, tra gli altri, agli Stati del Pacifico non allineati con gli Usa. Strategie opposte quelle delle due potenze la cui incompatibilità è descritta dallo scambio di accuse di «bullismo» e «interferenza» che Austin e Wei Fenghe si sono lanciati a Singapore.

Taiwan come l’Ucraina
Tra i discorsi più attesi dello Shangri-La dialogue c’era quello del presidente ucraino Volodymyr Zelensky. Come di consueto, il leader ucraino ha puntato sull’emotività e ha mostrato grande attenzione per l’audience di riferimento citando una frase pronunciata nel 1966 dal padre fondatore di Singapore Lee Kuan Yew. «Se non ci fosse stato il diritto internazionale e il pesce grande avesse mangiato il pesce piccolo e il pesce piccolo avesse mangiato i gamberetti… Noi non saremmo esistiti», ha detto Zelensky, richiamando in maniera nemmeno troppo velata il comune destino che sembra legare Ucraina e Taiwan. Ma la presenza di Zelensky non è stato l’unico richiamo al conflitto in corso in Europa. L’incomunicabilità tra Cina e Usa, infatti, ha ricordato tristemente quella tra Russia e Usa che ha caratterizzato i mesi precedenti all’invasione dell’Ucraina. Anche le parole del ministro cinese, che ha accusato Washington di non voler trattare con Pechino da pari a pari, risuonano spaventosamente simili a quelle più volte pronunciate da Putin. Tante similitudini non possono lasciar tranquilli nemmeno gli osservatori più ottimisti.
I timori del Giappone
Tra coloro i quali hanno mostrato preoccupazione per un possibile conflitto nella regione spicca il primo ministro giapponese Kishida Fumio. Non a caso, il Paese ha avviato in questi mesi uno storico piano di riarmo che passa per il raddoppio del budget della difesa al 2 per cento del Pil, pari a oltre 85 miliardi di dollari. La tradizionale rivalità con la Cina, con la quale è ancora in piedi la disputa sulle isole Senkaku (per i cinesi Diaoyu), e le minacce della Corea del Nord preoccupano molto Tokyo. Le continue provocazioni, non ultima l’incursione di jet militari cinesi e russi durante il summit Quad del maggio scorso, hanno così spinto il Giappone a prendere l’iniziativa. In questo quadro, le parole pronunciate il 13 giugno dal portavoce degli Esteri cinese Wang Wenbin che ha ribadito la piena giurisdizione di Pechino sullo Stretto di Taiwan non contribuiscono a distendere gli animi di una regione che pare sempre più sull’orlo di un conflitto annunciato.