Natale 2011. Il sole splende alto nel cielo, sono le 11 del mattino, è l’antivigilia di Natale e io sono di fianco a mio padre sul sedile posteriore di una mercedes ultra-lunga mentre penso fissando la strada che scorre fuori dal finestrino che oggi deve essere proprio un bel giorno per uscire di galera.
Papà parla al telefonino e io lo osservo mentre l’autista avanza a zig zag nel traffico della city e il sole brilla con tale intensità sul cofano della mercedes ultra-lunga che io sono costretto a infilarmi un paio di Ray-Ban Wayfarer anche se l’auto ha i vetri scuri. Accendo una sigaretta, poi mi sistemo il collo della giacca sartoriale con i bottoni in metallo che ho indossato oggi per l’occasione e dallo stereo arrivano le note dell’ultimo disco dei Kasabian che mi ricorda vagamente un vecchio pezzo dei Led Zeppelin che da cucciolo ascoltavo di nascosto nella stanza di mio fratello. Nonostante il carcere papà ha un’aria vagamente figa. Chiude la comunicazione. Mi sorride. Brillano le capsule. «Che ne pensi dell’auto figliolo? È come ai vecchi tempi». «Mah, non so, non che andassi troppo fiero dei vecchi tempi papà». «È solo un regalo dei miei avvocati, per cui tanto vale che ce la godiamo». «A proposito, come hai fatto a cavartela, pensavo non ti avrebbero dato la libertà vigilata per almeno due anni». «Non lo so, gli avvocati devono aver trovato una scappatoia. Io ho fatto solo le valigie». «E adesso cosa farai?». «Non lo so, niente programmi a lunga scadenza, chiama i tuoi amici, voglio dare un ricevimento in albergo, fare un po’ di baldoria per dimenticare che ho perso due anni di vita». Fisso davanti a me. Papà mi fissa a sua volta, malinconico, poi distoglie lo sguardo, sorride con sforzo. «Sono contento». «Anch’io figliolo. Davvero».
Nonostante il carcere papà ha un’aria vagamente figa. Chiude la comunicazione. Mi sorride. Brillano le capsule
Quando la mercedes ultra-lunga arriva in Place Vendôme davanti al Ritz ci sono uno stuolo di fotografi e giornalisti ad attenderci, i cameramen si passano le sigarette e ci lanciano occhiate avide. Mio padre si accorge dell’effetto che mi fanno. «Vedo che abbiamo compagnia», dico. «Sono venuti per il loro truffatore preferito. Tranquillo, ci penso io». Come scendiamo dall’auto, d’improvviso, è un vociare continuo, i flash delle macchine fotografiche iniziano ad accendersi, ed è tutto un… “eccolo eccolo” “è arrivato” “è lui” “permesso” “inquadralo” “signor Tapie”. In un attimo papà viene come assalito da una serie infinita di microfoni neanche fosse Greta Garbo. Io faccio un passo indietro, lui si offre in pasto ai giornalisti. «Signor Tapie, è vero che c’è una transazione finanziaria alla base del suo rilascio?». «Non ho tanto denaro». «E cosa ci dice delle decine di denunce a suo carico? Le persone che ha derubato verranno risarcite?». «Parlate con i miei avvocati, io sono fuori dal giro». «Cosa farà ora che è libero?». «Me ne andrò a Disneyland! In realtà voglio solo stare un po’ con i miei figli. Ora basta ragazzi a più tardi». Poi entriamo nella hall dell’albergo, la attraversiamo e la pancia del Palace ci protegge mentre tutto, come d’incanto, svanisce dietro le nostre spalle.
Agosto 2021, oggi. Ospite a bordo del Saint-Just, un ketch di 26 metri di proprietà della famiglia Borromeo, scorre placido il pomeriggio greco, sotto un cielo implacabilmente limpido e assolato. A prua, con indosso solo un paio di pantaloni di lino arrotolati sulle caviglie e dei Ray-Ban Wayfarer, scruto l’orizzonte, incerto sul mio futuro, perdendomi con lo sguardo nell’infinita varietà di colori del mare che vanno dal turchese al blu profondo. Da giorni sono in preda della più cupa disperazione. Non riesco a trovar pace. C’entra forse in parte il mio desiderio di diventare scrittore, anche se più passa il tempo più mi rendo conto di non averne né il talento né la motivazione. Penso spesso anche a Elettra, e a quanto fosse stato comprensibile il fatto che se la sia filata a gambe levate definendomi «uno stronzo fuori di testa» dopo l’ennesima litigata, l’altra notte a Santorini.
Elettra prenotò due posti sul volo Air France Atene-Parigi e trascinò con sé la mia carcassa tremante, per portarla al funerale di mio padre
La morte di mio padre poi mi ha lasciato addosso uno stato di devastazione dal quale probabilmente ancora non mi sono ripreso. Quando arrivò la notizia me ne stavo bello spaparanzato al sole, steso su un lettino a bordo piscina, sorseggiando bloody mary nella super-villa da 10 mila euro al mese che la famiglia di Elettra aveva affittato a Sèrifos, quando il trillo dell’iPhone mi riportò prepotentemente alla realtà. Vivevo in uno stato semi comatoso in quei giorni e grazie all’eroina tutto intorno a me appariva più liscio e confortevole del normale. Quei giorni distorti vennero così violentemente interrotti dal trillo dell’iPhone. Dall’altra parte la voce roca e ancora rotta dal pianto di mio fratello che mi comunicava che nostro padre era stato ritrovato riverso, senza vita, sul pavimento del bagno di casa sua a Parigi. Non avevo idea di cosa fare, di come comportarmi, di chi chiamare. Così Elettra mi tirò fuori da quella super villa da 10 mila euro al mese, prenotò due posti sul volo Air France Atene-Parigi, e trascinò con sé la mia carcassa tremante, per portarla al funerale di mio padre, che nel frattempo sarebbe stato organizzato in città.
Lo seppellimmo lì di fianco a Brodskij, a Igor Stravinskij e al poeta americano Ezra Pound
Mio padre mi aveva nominato amministratore fiduciario del suo patrimonio, che ammontava più o meno a nulla, se si escludono un paio di orologi Patek Philippe e uno scatolone di vestiti di Caraceni, troppo grandi per me, i cui pantaloni all’altezza del cavallo erano tutti incrostati di sangue. Le ceneri furono messe in un sacchetto e dato che nessuno volle fossero custodite nella tomba di famiglia al Cimitero di Père-Lachaise, inizialmente furono messe in una cassetta di sicurezza al Credit Suisse di Ginevra e successivamente le portammo a Venezia, a San Michele, e lo seppellimmo lì di fianco a Brodskij, a Igor Stravinskij e al poeta americano Ezra Pound. Mio padre aveva fatto la maggior parte dei suoi soldi con una serie di affari immobiliari altamente speculativi durante gli Anni 70. Proveniva da una famiglia di costruttori che avevano una delle imprese edili più antiche e prestigiose di Milano, la Facchin & Gianni, poi entrata in collisione con la Mafia e con le mire espansionistiche di un giovane e rampante imprenditore milanese di nome Silvio Berlusconi che, tramite due dei suoi uomini di fiducia di nome Marcello Dell’Utri e Filippo Alberto Rapisarda, scalò l’azienda, rosicchiandola poco a poco. Seguirono anni spericolati e deliranti in cui, abbandonata l’Italia, si trasferì in Francia, tentò la scalata ad Adidas, acquistò la squadra di calcio dell’Olympique di Marsiglia e entrò in collisione con gli affari del Crédit Lyonnais, che dopo averlo masticato lo sputò per terra senza ritegno. Fino a quel momento, con un capitale stimato di 150 milioni di euro, era tra i 400 uomini più ricchi di Francia. Un uomo “dalle mille vite” finirà poi in carcere, condannato a due anni di reclusione, di cui uno con la condizionale, in connessione con il reato di corruzione e subornazione di testimoni.
Che la terra gli sia lieve, mentre a bordo del suo Riva Aquarama, attraversa le sponde dello Stige
Se n’è andato così, senza gloria, solo e gonfio come un pallone. Se chiudo gli occhi però, lo rivedo, durante un clamoroso dibattito politico televisivo di parecchio tempo fa quando, vicino al capo del socialismo francese, François Mitterrand, sfidò l’allora emergente Jean-Marie Le Pen distruggendolo passo dopo passo e arrivando a dirgli con fare da gangster: «La smetta di minacciarmi, altrimenti finisce male». Che la terra gli sia lieve, mentre a bordo del suo Riva Aquarama, attraversa le sponde dello Stige.
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