Domenica. «Perché indossi due orologi?», mi ha chiesto un tizio l’altro giorno, mentre, da dietro il bancone del bar, gli preparavo un drink. «È una storia lunga», gli ho risposto noncurante, mentre, con indosso una t-shirt bianca di Moschino bucata con sopra scritto Bullchic!, riempivo lo shaker con dei cubetti di ghiaccio. Due giorni dopo è domenica e gironzolo senza meta per l’appartamento, le cui finestre si affacciano su viale Regina Giovanna, che divido con Ofelia. La testa mi esplode e ho talmente tante cose da fare che a volte penso che dovrei assoldare un sosia per riuscire a stare dietro a tutto. Mi lascio cadere sul gigantesco divano grigio in salotto, guardo sull’iPhone le previsioni meteorologiche e mi stiracchio, mugolando, con le braccia allungate sopra la testa. Sto pensando di prendere un dalmata solo per il gusto di chiamarlo Pongo, poi decido di riempire la vasca da bagno.
Immerso nell’acqua fino al collo sfoglio Rep bypassando per intero tutte le notizie sulla guerra. Mi metto così a leggere un pezzo dal titolo: ‘Code, risse e aste web. La febbre da Swatch come 40 anni fa”, che racconta le follie avvenute ieri pomeriggio in tutta Italia per la capsule realizzata con Omega, che ha fato impazzire i collezionisti, creando ovunque lunghissime code, iniziate nel cuore della notte, davanti ai negozi del marchio svizzero, sparsi qua e là per il Paese, da Palermo a Milano. Un tempo ero anch’io uno Swatch collector. Impazzivo per i chrono, per gli automatici e soprattutto adoravo gli scuba, che mi facevo regalare da chiunque dei miei parenti mi chiedesse, di volta in volta, cosa avrei desiderato ricevere per Natale, compleanno e compagnia bella. Poi un bel giorno, a 18 anni, finiti gli esami di idoneità alla quarta liceo che avevo appena passato all’Istituto Oppenheimer, decisi di prenderli in blocco e venderli tutti in un negozio specializzato di viale Abruzzi, il Ciocco credo si chiamasse. Mi servivano i soldi per partire per Cannes e soprattutto dovevo fare un grosso acquisto di droga, a scopo ludico, per me e i miei amici.
Ricordo i cartoni imbevuti di LSD, che ogni notte ci calavamo, e i déliri in giro sulla Croisette con su la maglia della nazionale che indossavo orgogliosamente, nonostante l’eliminazione ai rigori subita proprio dalla Francia
All’epoca ancora non avevo letto il capolavoro di Hunther Thompson, Paura e disgusto a Las Vegas, da cui successivamente venne tratto il celebre film di Terry Gilliam con Johnny Deep e Benicio del Toro, ma se ci penso oggi il nostro armamentario era molto simile a quello presente nel baule dell’auto a noleggio con a bordo Raoul Duke e il suo avvocato Dr. Gonzo in cui c’erano erba, mescalina, Lsd «e un’intera galassia di pillole multicolori, eccitanti, calmanti, esilaranti… e un litro di tequila, uno di rum, una cassa di Budweiser, una pinta di etere puro e due dozzine di fiale di popper». Di quella vacanza ricordo i cartoni imbevuti di LSD, che ogni notte ci calavamo con il vecchio compagno d’attacco Dichio e con il drugo Fede, e i déliri in giro sulla Croisette, in bermuda e con su la maglia della nazionale, che indossavo orgogliosamente, nonostante l’eliminazione ai rigori subita qualche sera prima proprio dalla Francia, che poi andò a vincere il Mondiale in tutta tranquillità, in finale con il Brasile di un Ronaldo strafatto, che a malapena si reggeva in piedi.
A questo penso, più che altro, se mi si para davanti la parola Swatch, e più in generale se analizzo il mio rapporto con gli orologi che, dalla storia del Rolex in poi, mi sono rifiutato di indossare per oltre 15 anni, fino a che Ofelia, a Natale, commossa da un post che avevo scritto su Instagram, ha deciso di regalarmi un Apple Watch. Da qualche settimana lo indosso in accoppiata, tipo Kurt Cobain, con uno scuba Blue Moon, il primo modello di scuba che ho mai posseduto, che di recente mi ha regalato il mio amico Silvio, commosso a sua volta dallo stesso post di Instagram. Questo, in definitiva, il motivo per il quale porto due orologi: per provare a dimenticare una volte per tutte la storia del Rolex. Già, la storia del Rolex, che qualche mese fa ho raccontato su Instagram, dopo averne parlato persino in radio.
Trovai una bancarella sul lungomare che vendeva borse Louis Vuitton e Rolex falsi. Il colpo di genio fu comperarne a 15 euro un modello uguale a quello che mi regalò mio padre. Falso o no, quando vedo questo orologio ancora oggi per me è il regalo che ricevetti per la maturità
L’inverno scorso, durante uno degli ennesimi lockdown, non ricordo più quale, facendo ordine in casa, in un mobile in salotto, ho ritrovato questo famoso Rolex. Erano tanti anni che non lo vedevo. L’ho messo al polso e il giorno dopo in trasmissione, in radio, ho raccontato in onda la sua assurda storia a Gad Lerner, che tra l’altro pensava lo prendessi per il culo, parodiando dei fatti da lui narrati nel suo ultimo libro intitolato L’Infedele. Ricevetti il Rolex in regalo da mio padre, l’anno dopo la maturità, trovandolo nel cassetto del comodino, lasciato quasi di nascosto, dopo averlo ospitato una notte a casa mia. Era più o meno il mese di maggio del 2003 e mi ero appena trasferito nella polverosa mansarda di via Tiepolo, una stanza tre metri per due, senza bagno, che avevo faticosamente trovato in affitto. Successe poi qualche anno dopo, durante un’estate insopportabilmente calda, che il mio conto al Credit Suisse fosse completamente vuoto. Avevo esagerato all’epoca, tra serate fuori, cene galanti e droghe, dischi, troie e droghe, camicie Ralph Lauren, week-end a Londra. Così decisi di vendere il Rolex per pagarmi l’affitto e soprattutto per riuscire a partire per le vacanze. Trovai così un appartamentino a Portofino, in Piazza Martiri dell’Olivetta, e ci trascorsi l’estate, tra ubriacature, molestie e un senso di colpa devastante. Poi, all’improvviso, l’ultimo giorno di vacanza, a Rapallo, mentre ero diretto verso la stazione per acchiappare il treno che mi avrebbe riportato a Milano, trovai una bancarella sul lungomare che vendeva borse Louis Vuitton e Rolex falsi. Il colpo di genio fu comperarne a 15 euro un modello esattamente uguale a quello che mi regalò mio padre. Falso o no resta il fatto che quando vedo questo orologio ancora oggi per me è il regalo che ricevetti per la maturità, dopo otto anni di liceo scientifico, anche se alla fine, quello che comprai a Rapallo, non ebbi più il coraggio di indossarlo.
Sabato. A Milano c’è il MiArt. È la seconda volta dopo la pandemia, ma visto che a settembre tutto era stato un fiasco totale, perché la fiera era stata infilata in fretta e furia a casaccio tra Art Basel e la Design Week e non se l’era cacata quasi nessuno, in città c’è molta attesa. Durante gli ultimi giorni, in sequenza, prima abbiamo bevuto vodka, mentre seguivamo l’intervento di Giovanna Silva da C2CMLN shared by GUCCI, poi il giorno dopo, siamo arrivati su due Jaguar XK8 rosse e scintillanti in Piazza Sempione a vedere la performance di Riccardo Benassi e Michele Rizzo per OutPut, curata da Davide Giannella e supportata dalla Fondazione Marcelo Burlon e infine, dopo un salto per vedere la mega mostra Useless Bodies alla Fondazione Prada, siamo andati al vernissage nella galleria Massimo De Carlo dove Maurizio Cattelan, un’altra volta, ha impiccato se stesso al soffitto. Quando siamo entrati da Cattelan davamo decisamente nell’occhio e la gente ha cominciato a bisbigliare nel momento preciso in cui siamo entrati e Je t’aime di Serge Gainsbourg ha iniziato a suonare per la prima di una infinità di volte nella serata, senza interruzione.
Eravamo io, Ofelia, sua sorella Cleopatra, suo fratello Roffredo e la sua ultima fidanzata bulgara, Zorny, insieme alla Michi e ad Ale Cash, ormai sempre più simile ad un Rick Rubin con due Rolex al polso (anche lui), tipo Diego Armando Maradona o Fidel Castro, se preferite. Non c’era un centro individuabile al vernissage, gli ospiti davano spiegazioni sommarie della loro presenza lì e qualcuno aveva dimenticato completamente chi l’aveva invitato. Nel mucchio potevi riconoscere: Yuri Ancarani, Paola Manfrin, Victoria Cabello, Caroline Corbetta, Luisa Bertoldo, Francesco Mandelli, Federico Russo, Pierpaolo Ferrari, e altre ex star di Mtv, mentre qualcuno andava in giro con enormi vassoi di ossibuchi. Tra gli aromi che aleggiavano c’erano dragoncello, fori di tabacco, bergamotto, muschio bianco. «Può darsi», ho bisbigliato a qualcuno, ma in realtà del MiArt non me ne fregava un benamato cazzo di niente e non avevo nemmeno voglia di ubriacarmi. Poi a un certo punto quando mi sono accorto che stavo iniziando a sbavare mi sono pulito con un fazzoletto di stoffa ho chiamato Ofelia e ho deciso di tornare a casa.
L’evento più seguito del MiArt, in ogni caso, è stata la puntata live della radio che ho fatto sabato sera in diretta all’Ostello Bello in via Medici e che, per contestazione, ho scelto di dedicare ai graffiti e alla Street Art invitando, per fare il figo, un autore siciliano semisconosciuto di cui non ricordo il nome che ha appena pubblicato per GOG, l’interessante pamphlet, intitolato provocatoriamente B. R. AMMAZZATE BANKSY e uno dei veterani del writing milanese, Styng 253, protagonista del fatto di cronaca della settimana che qualcuno ha definito «la notizia in prima pagina sul gazzettino del writer». In parole povere un tale, una specie di influencer di Instagram, settimana scorsa, è andato sopra un pezzo di Styng, coprendolo, con la parola RUBRICHETTE, scritta a caratteri cubitali. Ho deciso di dedicare tutta la puntata a lui per diversi motivi, uno dei quali è sicuramente che Styng è un’autentica superstar della scena e che questo gesto mi ha ricordato prepotentemente quella scena di Pulp Fiction, in cui due maniaci decidono di sequestrare e seviziare Bruce Willis in coppia con il boss Marsellus Wallace. I due successivamente riusciranno a liberarsi e Marsellus infliggerà atroci sofferenze ai suoi ex aguzzini. Ecco, per me, in questa storia, Styng interpreta esattamente la parte di Marsellus Wallace, se a questo poi aggiungo che Bruce Willis in questo casino ci finì proprio per colpa di un orologio, il gioco è fatto.
Il mio idolo assoluto era Dumbo, un essere mitologico che non avevo mai visto, che aveva letteralmente scarabocchiato tutta la città con il suo nome e che qualche curatore, anni dopo, paragonò come importanza per l’immaginario milanese addirittura a Giorgio Armani
Se non fosse che in vita mia non ho mai preso una bomboletta in mano e che l’ex marito di Ofelia è uno dei writer più noti in città (quindi per un lungo periodo ho odiato a morte chiunque faceva graffiti) devo dire che ho sempre avuto una passione per i writer fin dai tempi del liceo, poiché quando li guardavo vedevo in loro delle figure a metà tra l’artista e il fuorilegge, e la cosa mi affascinava un sacco. Nella mia scuola ad esempio c’era Phato, un membro della leggendaria crew dei CKC, che noi sbarbi fiordilatte guardavamo dal basso verso l’alto come fosse un gangster, e qualcuno di noi, in quel periodo, aveva fatto amicizia addirittura con Flycat, uno dei pionieri di tutto il movimento, che con la sua crew Pals with Dreams era stato uno dei primi a bombardare la metropolitana di Milano. Il mio idolo assoluto però era Dumbo, un essere mitologico che non avevo mai visto, che aveva letteralmente scarabocchiato tutta la città con il suo nome e che qualche curatore, anni dopo, paragonò come importanza per l’immaginario milanese dell’epoca addirittura a Giorgio Armani. «Quello che mi muoveva era un puro e semplice desiderio di conflitto contro le istituzioni», mi disse lo stesso Dumbo in un’intervista radiofonica che gli feci tempo fa e probabilmente per me, che non sapevo nemmeno tenere una matita in mano, oltre all’ego smisurato, era proprio l’approccio vandalico che mandava completamente fuori di testa. Dumbo era dappertutto, ti giravi e leggevi il suo nome. In qualsiasi posto, a qualsiasi ora. Oggi andare in giro con il volto coperto, con il passamontagna, con le mascherine o con le bandane ficcate sulla faccia è normale. Un tempo i ragazzi che avevano pressappoco la mia età le usavano per scendere nei tombini e andare a dipingere, devastando i treni e le banchine della metropolitana. Io a quei tempi venivo costantemente cacciato da tutte le scuole che provavo a frequentare. Ogni anno un nuovo liceo, nuove classi, nuovi amici. Mi sentivo escluso da tutto, anche se andavo in discoteca con i figli dei massoni e allo stesso tempo mi accontentavo della mia buona fama, perché contemporaneamente ero un frequentatore assiduo di piazze nervose e di determinati baretti violenti. Probabilmente, come Dumbo, cercavo anch’io la mia identità e un po’ gli invidiavo quel misto di arroganza e audacia con cui, con la forza, si prendeva i propri spazi in città. Spazi che imparai a prendermi, molti anni dopo, dietro le consolle di tutti i locali milanesi con un microfono in mano. Forse è per questo motivo che sono così affezionato a Ivano Atzori, anche se lo conosco pochissimo e di persona l’avrò visto al massimo un paio di volte, perché attraverso la sua storia riesco a entrare in contatto con il me ragazzo.
Dietro di noi viene proiettato un enorme graffito di Blu intitolato Chains che rappresenta il mezzobusto di un uomo intento a sistemarsi la cravatta con ai polsi due costosi orologi, casualmente dei Rolex, legati tra loro con una catena a mo’ di manette.
Settimana scorsa un tizio mi ha detto: «Ti annoierai a morte a scrivere le recensioni di libri sui giornali ormai». L’ho guardato nelle palle degli occhi e gli ho risposto: «Per niente, hombre, è uno dei miei modi per esprimermi perché per me scrivere, in fondo, è naturale come per te lo è respirare». Firmare un articolo o un racconto è per me esattamente come scegliere un disco da passare in radio. È la mia maniera di prendermi il mio spazio. Esattamente come faceva il Dumbo della nostra storia. A questo penso, in questo momento, mentre la luce dell’ON AIR all’Ostello Bello si è accesa e sono di fianco a Styng 253 pronto per andare in onda con in testa le mie cuffie da deejay e con indosso una t-shirt nera con sopra scritto KILL ALL ARTISTS e dietro di noi viene proiettato un enorme graffito di Blu intitolato Chains, che rappresenta il mezzobusto di un uomo intento a sistemarsi la cravatta con ai polsi due costosi orologi, casualmente dei Rolex, legati tra loro con una catena a mo’ di manette.