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Sushi in laboratorio, l’agricoltura cellulare combatte la pesca intensiva

Una startup statunitense produce filetti di salmone dalle cellule coltivate in laboratorio. Fra i finanziatori anche Leonardo DiCaprio e Jeff Bezos.

8 Aprile 2022 16:45 Fabrizio Grasso
La statunitense Wildtype produce salmone per il sushi dalle cellule senza allevare animali. Fra i finanziatori Leonardo DiCaprio e Jeff Bezos.

Affumicato, alla griglia, scottato in padella o crudo: il salmone è uno dei pesci più gettonati nelle cucine di tutto il mondo, soprattutto giapponese. Ingrediente fondamentale per il sushi, è però vittima di una pesca intensiva che ne ha ridotto del 50 per cento la popolazione in poco più di 40 anni. Per questo una startup americana si è rivolta all’agricoltura cellulare. Wildtype infatti sviluppa le cellule e ottiene la carne direttamente in laboratorio senza allevare o cacciare animali. L’idea ha catturato l’attenzione di grandi investitori, tra cui Leonardo DiCaprio e Jeff Bezos.

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Come funzione l’agricoltura cellulare adoperata per il sushi da laboratorio

Un simile tecnologia è in grado di produrre carne direttamente dalle cellule, senza sfruttare gli animali in allevamento, caccia o pesca. Wildtype infatti utilizza cellule estratte dalle uova di storione per ottenere direttamente in laboratorio filetti pronti ad essere consumati. Per farlo, “coltiva” le cellule in grandi recipienti di acciaio simili ai serbatoi per la fermentazione della birra. Tramite una rete a base vegetale, altrimenti chiamata impalcatura, le aiuta a formare poi un tessuto fibroso o grasso. «Si può produrre sushi vegetale anche dalle piante», ha detto alla Cnn Justin Kolbeck, fondatore e Ceo dell’azienda. «Noi però abbiamo deciso di lanciarci nella sfida di partire direttamente dalle cellule del pesce».

Our salmon saku has come a long way from where it began over three years ago when we first developed our salmon cell line. Now we can grow a filet like this whenever we want 🤯 1/ pic.twitter.com/8SMS6j9eCn

— Wildtype (@wildtypefoods) April 3, 2022

Molteplici anche i vantaggi dell’agricoltura cellulare rispetto all’allevamento ittico. I pesci in cattività si sottopongono spesso al trattamento con antibiotici per misurarne la resistenza alle malattie e inoltre possono contenere microplastiche. «Nulla di tutto ciò riguarda la nostra attività», ha detto alla Cnn Aryé Elfenbein, biologa e cofondatrice di Wildtype. «Inoltre abbattiamo gli sprechi poiché ci concentriamo solo sulle parti commestibili del pesce». Persino i tempi per l’ottenimento del prodotto finale sono migliori. Elfenbein conferma che per ottenere in laboratorio un filetto ideale per il sushi bastano 4-6 settimane a fronte di due o tre anni necessari alla crescita del pesce.

La necessità di un appoggio del governo e gli altri progetti in corso

Al momento i costi sono però proibitivi rispetto all’allevamento tradizionale, ma è probabile che in futuro si assista a un’inversione di tendenza. Attualmente solo Singapore ha approvato la vendita su larga scala della carne di laboratorio, ma il vento sta cambiando. Gli Stati Uniti hanno infatti in programma una regolamentazione entro la fine dell’anno. Nel frattempo, Wildtype sta provvedendo ad acquistare e realizzare strutture più grandi per adattare la produzione su larga scala. I finanziamenti non mancano, tanto che Leonardo DiCaprio e Jeff Bezos hanno contribuito con 100 milioni di dollari.

La statunitense Wildtype produce salmone per il sushi dalle cellule senza allevare animali. Fra i finanziatori Leonardo DiCaprio e Jeff Bezos.
Un piatto di sushi preparato con filetti prodotti da cellule (Wildtype)

Wildtype non è però l’unica azienda a investire sull’agricoltura cellulare. BlueNalu ha raccolto 60 milioni di dollari, mentre Finless Foods nel solo mese di marzo ha riempito le casse con 34 milioni di dollari. Entrambe le aziende si concentrano sulla produzione di tonno rosso, pesce in via di estinzione per la pesca intensiva. «Se non facciamo nulla, entro il 2030 potremmo superare il punto di non ritorno per molte specie», ha concluso Kolbeck. «Ho due figli e non voglio lasciare loro un pianeta povero di biodiversità sapendo che avevamo le armi per fare di più».

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