Il tracciamento delle pagine web che un utente visita ogni giorno è una risorsa preziosa per motori di ricerca e social network. Piattaforme come Google e Facebook, infatti, sfruttano queste informazioni per guadagnare sulla pubblicità: profilando il traffico, infatti, propongono all’internauta di turno link e sponsorizzazioni perfettamente in linea con gli articoli che fanno capolino nella cronologia. Una strategia vincente che, a scapito della privacy dei soggetti coinvolti, assicura loro fatturati annuali di miliardi di dollari. Davanti alla prospettiva che questo controllo possa diventare eccessivo e recare solo danni ai malcapitati (a giudicare dai dati forniti da un recente studio siamo già sulla buona strada, visto che l’europeo medio si ritrova almeno 376 condivisioni giornaliere dei suoi dati di navigazione), un’azienda canadese ha deciso di scombinare le carte in tavola, restituendo il potere agli user e offrendo loro la possibilità di trarre vantaggio dallo scrolling tra un sito e l’altro. Come? Lanciando uno strumento, Surf che, installato tra le impostazioni del browser, consente alle persone di guadagnare dai loro giri in Rete.
Come funziona Surf
Ancora in fase di studio e distribuita in edizione limitata, l’applicazione funziona come la stringa di un normale browser ma bypassa l’intermediario (Yahoo, Mozilla Firefox e simili), vendendo direttamente i dati dell’utente a una selezione di brand, tra cui Sephora, Lenovo, Crocs, Dyson, The Body Shop e Foot Locker. In cambio, Surf regala un pacchetto di punti che, accumulati di navigazione in navigazione, possono essere convertiti in buoni sconto e gift card da sfruttare sugli e-commerce dei marchi convenzionati. Quando qualcuno scarica l’estensione e vi accede, fornisce un’anagrafica destinata a rimanere anonima: l’email e il numero di telefono non verranno resi pubblici, il nome non è richiesto e non è obbligatorio inserire età, sesso e indirizzo.
L’idea di base è molto semplice: la compagnia punta a offrire ai marchi un database utile, ad esempio, a capire quali siano i siti internet più popolari tra gli uomini di Los Angeles d’età compresa tra i 18 e i 24 anni. E, di conseguenza, organizzare e posizionare i loro annunci online in base a queste informazioni per raggiungere il target d’elezione e guadagnare direttamente dallo shopping (senza dover spartire una percentuale degli utili, ad esempio, col social che ha ‘ospitato’ il link del prodotto acquistato). Per il momento, non è dato sapere quanto si possa ricavare ma i vertici hanno comunicato che, finora, gli iscritti sono riusciti ad accumulare collettivamente più di 97 mila dollari (oltre 90 mila euro). E non finisce qui: tra i vantaggi di Surf, c’è anche la possibilità di bloccare la trasmissione di informazioni riguardo a determinati indirizzi visitati, non condividendole con il sistema.
Tra ottimi feedback e buoni propositi
Tra i fruitori più affezionati del servizio c’è anche la studentessa newyorchese Aminah Al-Noor, che ha parlato con entusiasmo di come sia riuscita a riprendere il controllo dei propri dati online. «Puoi scegliere cosa dare e cosa non dare a Surf», ha spiegato la 21enne alla BBC, «spesso mi sono dimenticata di disattivarlo e, una settimana dopo, controllando di sfuggita, i miei punti erano aumentati. Le aziende che lavorano nel settore della tecnologia, in un modo o nell’altro, accendono ai nostri profili ma il punto è mettere a frutto questo meccanismo nel modo più sano possibile». Obiettivo che il fondatore della start up, Swish Goswamo, si è prefissato dal giorno uno: «Vogliamo essere il programma fedeltà della navigazione su Internet», ha precisato, «siamo sempre stati chiari coi nostri utenti su quello che condividiamo e quello che non condividiamo, dando loro il coltello dalla parte del manico. Se sei limpido nello spiegare alla gente che metti a disposizione dei brand i dati personali ma in maniera riservata e protetta, il feedback non può che essere positivo».

Tanti strumenti per un uso responsabile della tecnologia
Surf è soltanto l’ultima delle idee che fanno capo a quella che gli esperti hanno definito ‘tecnologia responsabile’, lontana dal furto e dall’utilizzo improprio di informazioni sensibili. Una strada percorsa, negli ultimi anni, da un altro progetto imprenditoriale made in Canada curato dall’ingegnere Philippe Beaudoin e noto come Waverly, che consente alle persone di costruire il proprio repertorio di giornali online da consultare piuttosto che affidarsi a Google News, Apple News e ai loro algoritmi zeppi di pubblicità invadente. Utilizzarlo sembra un gioco da ragazzi: una volta selezionati gli argomenti, il software di intelligenza artificiale individua gli articoli affini alle preferenze espresse. Le impostazioni non rimangono statiche: possono essere cambiate regolarmente e, in più, è possibile esprimere anche una valutazione sui pezzi che il sistema ha consigliato.
O, ancora, direttamente dagli Stati Uniti, Rob Shavell e Abine hanno messo a punto due app utili a tutelare la privacy di chi le adopera, Blur e Delete Me. La prima si assicura che non rimanga traccia di password e dettagli di pagamento con carta di credito, la seconda elimina tutte le informazioni personali dai motori di ricerca. Iniziative che, a detta della professoressa Carissa Veliz, dovrebbero spianare la strada a una rapporto intelligente col tech.

«È inquietante pensare che molti dei meccanismi digitali che regolano le nostre vite siano ideati da compagnie private che strumentalizzano la privacy dell’utente a scopo di business», ha ribadito, «la trasparenza non è una panacea ma uno stimolo affinché le autorità di controllo prestino più attenzione alla questione». Persino Google ha abbracciato quest’approccio e, a fine anno, metterà a disposizione del pubblico My Ad Center, una sorta di hub virtuale che, incrementando i controlli, consentirà ai diretti interessati di regolare il tracking dei dati sfruttati per individuare le pubblicità da mostrare in home page.