Nell’attico in piazza Vetra c’eravamo tutti, tranne mio padre Kiko e un cugino. Ad aspettare la chiamata dalla clinica svizzera dove zio Nando era andato a mettere fine alla sua vita. Il racconto della settimana.
Con frenata sghemba arrivo davanti a Serendeepity in Piazza Sant’Eustorgio, in sella alla mia bici color blu diplomatico Rossignoli, che sono quasi le 11 di un tetro giovedì mattina di metà novembre. Sono un po’ in ritardo ma già che sono qui in zona non posso esimermi dal fare un passaggio nel mio negozio di vinili preferito in città, perché ci sono due perle di cui ancora non sono entrato in possesso, che devo assolutamente passare a ritirare. Si tratta del riscoperto Live di Seattle di John Coltrane del 1965, appena pubblicato da Impulse, e dell’ultimo lavoro del batterista statunitense Makaya McCraven, che segna il suo debutto con la Blue Note. Roba pazzesca che tra l’altro sto passando in loop in radio da diverse settimane insieme all’ultimo della band canadese BadBadNotGood e al live di Zurigo 2020 della trombettista newyorkese Jaimie Branch, anche se questa settimana tutti parlano del nuovo disco di Marracash.
Anticamente per accedere alla piazza si doveva attraversare il cosiddetto Ponte della Morte che portava direttamente al patibolo. Un teatro ideale per rappresentare le vicende che mi attendono oggi
Perché sì, mi chiamo Andrea Frateff-Gianni e faccio il disc-jockey, come del resto sta scritto sulla mia carta d’identità. Una specie di Gilles Peterson, ma di Porta Venezia. Tutto tronfio, con i miei vinili in borsa, attraverso via Santa Croce, porto la bici a mano fino al palazzo di via Banfi al numero 5, la lego al cancello, faccio un cenno al portiere e schizzo con l’ascensore su, fino all’attico, all’ultimo piano. L’ascensore si apre direttamente in salotto e come varco la soglia dell’attico, Lalla, la cameriera peruviana, mi viene incontro per prendermi il cappotto. La grossa sala si affaccia sul Parco delle Basiliche di Piazza Vetra, piazza che a Milano ha una storia antica. Il suo nome deriva, secondo alcuni, dal “vectra”, un canale in cui confluivano gli scarichi della città e dove gli antichi conciatori, detti vetraschi, sciacquavano le pelli nelle acque melmose. Addirittura Alessandro Manzoni la citava nella Storia della Colonna Infame, dove rievoca la vicenda di un untore seicentesco “arso in via della Vetra de’ cittadini”. Per questo è un luogo dove sono state ambientate molte storie misteriose e secondo gli esoterici e i maghi della vecchia Milano, era la sede di forze e influenze negative, che da lì si spargevano nell’intera città. In Piazza Vetra, inoltre, si svolgevano le esecuzioni capitali di coloro che erano condannati per eresia, comprese le streghe, che venivano arse sul rogo. Anticamente, e fino al 1814, per accedere alla piazza si doveva attraversare il cosiddetto “Ponte della Morte”, che portava direttamente al patibolo. Insomma, un teatro ideale per rappresentare, anche allegoricamente, le vicende che mi attendono oggi.
L’attico, come sempre, è tutto in perfetto ordine. Niente sembra fuori posto. Il parquet chiaro, i divani bianchi, i libri sulla scrivania Impero, la collezione degli Adelphi vicina a quella dei Meridiani Mondadori. Intorno al tavolo di legno chiaro siede, quasi al completo, tutta la mia famiglia allargata e io, ovviamente, sono l’ultimo ad arrivare. C’è mio fratello Stefano con sua moglie Priscilla, i miei cugini Giorgio e Gian Mario. C’è la piccola Beatrice. C’è Sveva con suo marito Carlo e, seduta leggermente in disparte, c’è anche una ragazza piuttosto volgare, più o meno della mia età, con una minigonna di pelle, che non credo di aver mai visto prima e che nessuno si affanna a presentarmi. A una prima occhiata veloce mi pare che nel mucchio manchino, sia mio padre, Kko ico, rimasto a Macherio sia un altro cugino, Alberico, detto Chicco, forse ad Abu Dhabi. O forse a San Vittore, come malignamente più tardi ha commentato qualcuno.
«Buongiorno a tutti!», dico, leggermente imbarazzato, «Ofelia oggi non c’è ad accompagnarmi. È a Parigi per lavoro, ma vi porge i suoi saluti», aggiungo, esitante. In cucina Lalla, la cameriera sudamericana, prepara il Martini con cura, il bicchiere giusto, quello a cono, con la scorza di limone. Prima di sedermi mi domando il motivo per il quale questa assurda riunione non si è tenuta nella villa di famiglia a Moltrasio, sul Lago di Como, e quando lo chiedo a mio cugino Giorgio mi risponde che la villa è stata venduta ieri pomeriggio e che non ci è più permesso entrarci. «Si sono tenuti perfino lo stemma di famiglia! Incredibile!», dice, e poi prosegue, «ma non ti preoccupare cugino, ho già sguinzagliato l’avvocato di Corona, gli faremo cagare sangue!». Così mi guardo intorno, malinconico, e a un certo punto mi è scomparso di dosso il pullover, perché nell’attico fa un caldo così mostruoso che sono costretto a slacciarmi anche il secondo bottone della camicia Brooks Brothers. Tra l’altro, anche l’attico di Via Banfi numero 5, all’ultimo piano di un palazzo a vetri, costruito a suo tempo dall’impresa di famiglia Facchin & Gianni, è già da qualche settimana di proprietà di un fondo inglese, a cui mio zio aveva venduto la nuda proprietà.
Le grandi famiglie, come la nostra, sono spesso attraversate da grandi tragedie, in uno strano gioco del destino che molto dà e altrettanto leva
Da qui è partito ieri mattina, a bordo della sua Fiat 500 ibrida, accompagnato dal suo autista, il fedele Mario, alla volta della Svizzera, per porre fine alla sua vita tramite suicido assistito, manco fossimo in quel film, Kill me please, di quel regista belga del quale non ricordo il nome. Non ha voluto nessuno dei familiari vicino mio zio Nando, al secolo Ferdinando Cetti Serbelloni di San Gabrio Castelli di Villanova, che tutti chiamavano semplicemente “il Conte”, ma ha disposto che ci trovassimo tutti qui, a casa sua, per brindare alla sua memoria a suon di Martini, manco fossimo in quel film, Funeral Party, di quel regista britannico di cui non ricordo il nome. Malato, depresso, piegato da una serie di vicissitudini private e lavorative, ultimamente lo zio, un po’ per piaggeria, amava paragonare le tragedie della sua famiglia a quelle dei Kennedy, o degli Agnelli, e io gli dicevo: «Zio, non sminuirti! La nostra famiglia è molto più antica e importante, perché ricordati che né i Kennedy né gli Agnelli hanno titoli nobiliari né soprattutto hanno mai avuto un papa tra i propri avi». Lui sorrideva, distoglieva lo sguardo e mi parlava di mia cugina Cristina, scomparsa improvvisamente una notte d’estate del 1999, a soli 29 anni, e di mia zia Marta, morta la notte di Natale di due anni fa, nel letto della sua camera, nella villa di Moltrasio. «Adesso che non c’è più nessuna di loro due, che senso ha vivere per me?», mi domandava, mentre io fissavo le cifre FCS sulla sua camicia, per evitare di guardarlo negli occhi e non rischiare di scoppiargli a piangere in faccia. Ricordo che, quando mi arrivò la notizia della morte della zia, ero a New York, con Ofelia, e stavo cercando al negozio Nike di Soho un paio di limited edition introvabili in Europa. E poteva essere il giorno di Santo Stefano, di due o tre anni fa.
Il ritratto di Galeazzo Serbelloni.
Aspettando la telefonata dalla clinica Svizzera, nell’attico all’ultimo piano del palazzo di via Banfi al 5, Lalla, la cameriera peruviana, va a fare la spesa per il pranzo. «Vi fermate vero a colazione?», chiede speranzosa. È affettuosa, Lalla, ha ricevuto tutte le ultime disposizioni dal padrone di casa. No, non ha bisogno di soldi per il pranzo, ci sono ancora quelli vecchi che lo zio le ha lasciato. È stata lei ad assistere Marta negli ultimi giorni di agonia, e poi ha visto spegnersi lui, sempre più malinconico, quasi blindato in casa. Sembra tutto surreale, qui nell’attico all’ultimo piano del palazzo di via Banfi al 5. Nessuno piange, tutti parlano e si intrecciano ricordi privati e ricordi pubblici, perché lo zio per tutti noi è sempre stato un po’ il patriarca di famiglia, la persona affidabile, l’uomo generoso a cui rivolgersi quando qualcuno aveva dei problemi e la villa di Moltrasio, ultimo baluardo di una serie infinita di proprietà andate in rovina, il luogo dell’anima, dove si scorrazzava da cuccioli, dove ci si ritrovava per passare i momenti lieti e stringersi, uno di fianco all’altro, nei momenti difficili.
Ci disse di andare ognuno per la propria strada. Di non contare per il nostro avvenire né sulle proprietà di famiglia né su fantomatiche eredità. In pratica ci congedò
Perché le grandi famiglie, come la nostra, sono spesso attraversate da grandi tragedie, in uno strano gioco del destino che molto dà e altrettanto leva, quasi fosse una sorta di macabra compensazione che negli anni ci ha costretto a fare i conti con l’ombra della sciagura sempre in agguato. Poi la telefonata arriva. L’attesa è finita. Le pompe funebri andranno a prelevarlo in Svizzera, tutto era stato deciso nel dettaglio. L’ultimo viaggio sarà verso il cimitero di Moltrasio, dove sarà seppellito vicino alla sua Marta, nella tomba di famiglia. Due ore dopo sono di nuovo in sella alla mia bici color blu diplomatico Rossignoli e mentre pedalo verso casa penso a quella volta che ci invitò tutti, noi figli e nipoti, a Villa d’Este, a Cernobbio, e poteva essere marzo o aprile. La zia era morta da poco e probabilmente fu l’ultima riunione di famiglia alla quale partecipai. Regalò a tutti un doppio ritratto di Gian Galeazzo Serbelloni, figlio di Gabrio e Maria Vittoria Ottoboni, in un portafoglio di coccodrillo di Gucci e Il Giorno del Parini. Ci disse di andare ognuno per la propria strada. Di non contare per il nostro avvenire né sulle proprietà di famiglia né su fantomatiche eredità. In pratica ci congedò. Ripensandoci oggi credo che questo sia il motivo per il quale ho messo come immagine del profilo di Whatsapp, al posto della foto, lo stemma di famiglia.
*I nomi e i fatti narrati sono frutto di fantasia.