Mappa d’amore

Redazione
02/06/2021

Un dialogo costante con se stessa e con il mondo che la circonda. "Stradario aggiornato di tutti miei baci" è l'ultimo romanzo di Daniela Ranieri. Tag43 ne pubblica un estratto.

Mappa d’amore

Stradario aggiornato di tutti miei baci (Ponte alle Grazie) è l’ultimo romanzo di Daniela Ranieri, antropologa, scrittrice, giornalista del Fatto quotidiano dove scrive di politica e cultura. Si tratta del diario di una donna in dialogo costante con se stessa e con il mondo, dal quale emergono ossessioni, il rapporto con l’amore e il corpo, ipocondria e nevrosi. Tag43 ne pubblica di seguito un estratto.

Questo è un mistero

Questo è un mistero, l’eterno mistero delle correnti amorose: perché proprio lui, tra tanti uomini presenti in quel posto? Solo perché lui guardò me? Ma non ci stavamo già guardando quando mi sono accorta che mi guardava? E perché sapemmo tutto subito, tutti e due sapemmo di cosa si trattava, qual era il punto, qual era la questione e il rischio connesso? Funziona, il destino, o è solo il confluire di casualità e di circostanze irrilevanti a produrre l’accordo amoroso tra due esseri umani? Per i due, tre minuti successivi ho fatto quello che faccio sempre al cospetto di uomo che mi interessa: ho ostentato indifferenza, frenando la cauta insidia contenuta nel suo sguardo al laser.

Tra noi l’eros era una presenza così chiara e solida che la si poteva vedere in forma di linea luminosa passare sui tavolini, sui bicchieri e tra le tazze della gente per finire legata con un nodo alle nostre lingue

Non so perché lo faccio: forse è una specie di selezione all’ingresso. Solo chi insiste è un uomo. Nella mia magna charta sentimentale, è scritto che se un uomo si scoraggia di fronte al mio primo rifiuto non è virile, è un vanesio in cerca di conferme che si autoelimina. Lo so, è primitivo; e anti-femminista. E sia. Qualcuno in piedi accanto a lui ha smosso l’aria mettendosi a fare un selfie, berciando in una lingua che non capii. Ma a quel punto lui, quell’uomo emanato incongruamente dalla Sicilia, ha sorriso al bordo del tavolino, eppure a me (lo so: lo sapevo in quel momento e lo avrei saputo dopo), poi si è passato la mano sulla coscia con clemenza divertita, come per togliere dai pantaloni delle briciole che io passando gli avessi fatto cadere addosso. Era chiaro che aveva molta pazienza. Chissà come mi vedeva: forse come una turista rincretinita dal sole e dalle foto col telefonino tra le tante, che bramava per avere la sua esperienza siciliana di granita più avventura erotica, in attesa del suo amichetto che sbrigava le faccende pratiche mentre lei flirtava coi maschi ai tavolini. So riconoscere la tensione erotica quando si crea, dal nulla da cui provengono tutte le faccende importanti della vita. E tra noi l’eros era una presenza così chiara e solida che la si poteva vedere in forma di linea luminosa passare sui tavolini, sui bicchieri e tra le tazze della gente per finire legata con un nodo alle nostre lingue. Non so descrivere un volto (chiamata a delineare un identikit, farei arrestare legioni di innocenti); di certo non il suo: nemmeno adesso che lo conosco potrei dire come ha gli occhi, la bocca, di che forma ha gli zigomi e la fronte. So che il colore degli occhi gli cambia col contesto e col paesaggio (alla luce del mare gli scoppia nell’iride una fialetta di fiele), e che ricorda quel blu sottomarino delle iridi dei neonati che si devono ancora assestare su uno spettro preciso; ma il più delle volte somiglia a quello dei dorsi degli scarafaggi, quel nero-verde morboso, cangiante, che sorprende il nottambulo in casa sua per suo massimo spavento, e orripilazione dei piedi. Intanto una coppia seduta a due metri da lui aveva appena avuto il conto, ma la donna si sedette di nuovo e si mise a cercare qualcosa nella borsa, mentre l’uomo, con una lattina di Coca Cola in mano, sbuffava fissando lo schermo del cellulare.

Solo chi insiste è un uomo. Nella mia magna charta sentimentale, è scritto che se un uomo si scoraggia di fronte al mio primo rifiuto non è virile, è un vanesio in cerca di conferme che si autoelimina. Lo so, è primitivo; e anti-femminista

Ero in piedi ancora, col mio sacchetto appeso al polso sinistro e con tutta la mia biografia confluita in quel punto, il Dna ancestrale ben inzuppato in tutta la mia persona esattamente per vivere quell’istante (come del resto anche gli istanti irrilevanti), quando Michele tornò tenendo quattro bottigliette di plastica ghiacciate in braccio come bambini gesù, bestemmiò per il caldo, rivolse un insulto all’indirizzo della gente seduta – ma lo sentivo male, come la radio quando la manopola resta a metà tra due frequenze. Un carabiniere rideva col suo collega inzuppando una cialda nel cappuccino. Guardai verso quella cosa nuova che era capitata in mezzo al mondo: era ancora lì, stavolta guardava apertamente la facciata del palazzo in cui abito con la mia sempiterna incontentabilità da inquilina morosa. Con un cenno degli occhi, feci capire a Michele che alla mia sinistra avevamo un diversivo, una novità assoluta di cui parlare nelle prossime ore. Lo straniero, il contrabbandiere, il tombarolo, gli piaceva. Fece una faccia golosa parodiando la figura da commedia della checca e rise porgendomi l’acqua. Io riguardai l’uomo per brevi istanti, per pura volontà di veridizione. Notai, come noto ancora, la totale assenza di vanità nella postura. Era un uomo naturale. Mi guardava gli occhi con l’espressione gentile, curiosa e un po’ importunata di certi nobili decaduti da secoli quando incontrano una figlia del popolo lungo la strada del villaggio un tempo posseduto. Sospirai, per significargli quanto fossi stanca di vivere e contrariata dal caldo e da tutta quella situazione allegorica di posti in piedi e esaurimento delle risorse, ma anche per scoraggiarlo, per offenderlo, per rifiutarlo prima ancora che si proponesse; e intanto mi accorgevo che quando non lo guardavo lo vedevo sulla rètina, ne incontravo l’eco visiva in continuazione.

 

stradario aggiornato di tutti i miei baci: un estratto
La copertina di Stradario aggiornato di tutti i miei baci, l’ultimo romanzo di Daniela Ranieri.

Alto, grande: con molta materia umana addosso, eppure asciutto; il ventre appena accennato, ma visibile, degli uomini sani: che alla sera bevono vino rosso. Aveva una giacca estiva color ghiaccio e i pantaloni blu. La camicia era bianca, fresca. Aveva gli occhiali, che porta solo quando legge: infatti sul tavolo c’era un libro con la copertina di tela marrone. Se se ne fosse andato in quel momento, credo che avrei spaccato un bicchiere. La mia tensione emotiva era ridicola. Ero in preda alla chimica, alla spinta della specie: con tutta la filosofia, pensai, tremo da capo a piedi, come il Federico Ruysch di Leopardi al cospetto delle sue mummie. Che fatica! Ricominciava la giostra sfiancante dell’innamoramento. Bisognava scappare: la vanità e la gioia dell’infatuazione sono il preludio della sofferenza più atroce e dell’addio più severo, ormai lo so: che vado cercando ancora?: al fuoco segue la fredda cenere: è matematica: è fisica. Al diavolo la curiosità, ormai ho visto di cosa si tratta, come scrisse un cantore poi divenuto Papa: lunghi lutti, brevi risa, piccoli dolori, grandi timori. Chi ama sta per morire e non muore mai. Perché continuo a immischiarmi in queste sciocchezze? Sono così brava a iniziare le storie d’amore perché sono addestratissima a farle finire. Sono campione mondiale di rottura di legami forti e deboli. So già la verità: innamorarsi è il primo e il più sicuro passo per disamorarsi. Fallo!, e stai correndo verso l’abbandono. Chi si fa marchiare a fuoco il cuore sa che ogni volta non è per sempre: l’idealista in amore è il peggior nichilista. Mentre vi dice che siete l’ultimo, spera che non sia vero. Ama l’amore, non ama voi. Tutta questa possibilità (certezza) adesso mi stava per investire, provenendo dal futuro inevitabile, come la confettura di caldo che mi serrava la gola. Era il principio e la fine: una corrente potentissima, debilitante, di possibili futuri mi urtava sulla faccia come la tramontana robusta d’Abruzzo, a febbraio. Non so se, incontrandolo altrove, a Milano, dove disgraziatamente viveva quell’altro, o in un’altra città del nord, lo avrei considerato come in quei primi momenti, con la stessa partecipazione di tutte le mie energie solide e sottili, con paura e sgomento, e con smania e assillo, nella rifrazione cristallina dell’arenaria.

Lui era (è) tutt’uno con la Sicilia, che è la terra erotica e dunque tragica tra tutte le terre del mondo, capace di spalancare ogni porta negli amanti sgualciti che pensano di averle chiuse

Lui era (è) tutt’uno con la Sicilia, che è la terra erotica e dunque tragica tra tutte le terre del mondo, capace di spalancare ogni porta negli amanti sgualciti che pensano di averle chiuse. No, sono sicura: non sarebbe lui, se non avesse l’accento dei siciliani bruschi della costa orientale, coltissimo e barbaro, se la sua figura non avesse come contorno le agavi succose, se all’odore della sua pelle non rispondesse la sfrontatezza delle zagare (divento barocca quando parlo di lui: che invece è essenziale, dritto). Vuol dire che non amo la sua essenza, ma solo i suoi accidenti biografici? E non fanno, essi, parte della sua essenza? Allora: ho deliberatamente sostenuto il suo sguardo, con sfida, diffidenza, calore umano e una specie di reattività da oltraggiata che solo lui poteva interpretare come simpatia. Lo sguardo, che Properzio indicò come un vettore delle frecce di Eros, si comportò come quei fili su cui sono stesi i panni tra due palazzi in certi vicoli del sud, su cui i vicini si passano cesti pieni di vivande. Finalmente potemmo sederci. Avvicinandomi a lui – e questo lo fa ridere, perché la magniloquenza che mi è necessaria per esprimere quel che ho sentito è il contrario del suo autocontrollo, del suo distacco sottile – ho sentito l’alone radiale della sua persona avvolgermi e rallentarmi. Dalla mia sedia guardavo il Duomo di sabbia, lui era rivolto verso di me – aveva un pezzo di spiga impigliato al calzino sinistro – poteva sentire quel che dicevamo, ma ritenne opportuno tornare a leggere (a guardare) il suo libro marrone. Me ne sono innamorata in quel preciso momento: quando, dopo avermi fissato gli occhi per qualche secondo, ha abbassato lo sguardo sorridendo lievemente. Ci portarono le granite alla mandorla e al gelso: sentii sulla lingua il freddo e il dolce, il piacere delle cose che si riallineano, il sollievo dell’assetato, come in stereofonia. Lui mi tenne inchiodata con lo sguardo per mezz’ora. (A., s’intitola questo capitolo. «Menin», «collera», è la prima parola dell’Iliade. Dall’ira di Achille ebbe origine la guerra e la sciagura che ne seguì. Nei poemi e nelle elegie greco-romane la prima parola di una composizione ne diventava il titolo: perciò Mecenate e Marziale chiamavano «Passer» la raccolta di carmi di Catullo, che iniziano col verso: «Il passero, delizia della mia ragazza, con cui suole giocare, e tenerlo in seno», e «Cinzia» si chiamava il libro maggiore di Properzio, perché «Cinzia» è la prima parola del primo verso della prima elegia del primo libro: «Cinzia fu la prima a rapirmi coi suoi begli occhi, me infelice, non ancora toccato dalla passione». E non tragga in inganno quel «rapirmi», che non ha nulla di languido o di cortese: è la traduzione di «cepit», parola appartenente al lessico militare. Forse avrebbe dovuto iniziare con «collera», o con questa lettera A., tutto il presente libro. Invece inizia con «Sono»: dall’essere, dal fatto preciso che io sono, scaturisce la mia guerra.