Ci risiamo: in un mare di bot, disinformazione e propaganda, a finire sul banco degli imputati ci sono ancora loro, i social network. Di nuovo diventati veicolo di fake news e alimentatori di rabbia. Si parla ovviamente del Brasile e di ciò che è successo l’8 gennaio, con l’assalto ai principali edifici governativi da parte dei più fanatici sostenitori del presidente uscente di destra, Jair Bolsonaro, scesi per strada a seminare violenza per protestare contro il suo successore di sinistra, Luiz Inácio Lula da Silva. Il problema è che tutti avevano visto arrivare da lontano questa ondata di odio e mobilitazione. Tutti tranne i giganti dei social media, appunto.

Decine di migliaia di interazioni a favore dei rivoltosi
Nei gruppi di WhatsApp, molti con migliaia di iscritti, i video virali degli attacchi si sono diffusi rapidamente. Molti dei fedeli di Bolsonaro hanno esortato i rivoltosi, chiedendo un ritorno alla dittatura militare, come riportato da Politico. Su Twitter gli utenti hanno pubblicato migliaia di immagini e video a sostegno dell’assalto con l’hashtag #manifestacao. Su Facebook, lo stesso hashtag ha raccolto decine di migliaia di interazioni, a suon di “mi piace”, condivisioni e commenti, la maggior parte a favore dei facinorosi, secondo CrowdTangle, lo strumento di analisi di proprietà di Meta. Tutto ciò è accaduto nonostante la società di Mark Zuckerberg si fosse impegnata a rimuovere qualsiasi post in lode della rivolta.

Fact-checking e disclaimer? Non bastano
João Brant, esperto brasiliano di disinformazione e segretario per le politiche digitali di un’agenzia governativa, aveva lanciato un monito già a ottobre: «I social non stanno facendo abbastanza», ha detto quando gli è stato chiesto come stesse andando la lotta alle fake news, promossa da politici e influencer. «L’impegno reale per difendere la democrazia dovrebbe essere tra le loro responsabilità». Le piattaforme hanno provato a difendersi sottolineando gli sforzi compiuti, come per esempio un lavoro di fact-checking o l’uso di disclaimer sugli hashtag più popolari legati alla violenza, oltre alla rimozione di contenuti e account che inneggiavano all’insurrezione. Eppure non è bastato.

Strumenti digitali al servizio degli estremisti
L’esplosione del caos ha palesato ancora una volta il ruolo centrale che le società di social media svolgono nei meccanismi che regolano (o minacciano) le democrazie nel XXI secolo. Queste aziende forniscono strumenti digitali come i servizi di messaggistica crittografati utilizzati dagli estremisti per coordinare la violenza offline e si affidano ad algoritmi automatizzati progettati per promuovere contenuti propagandistici che possono minare la fiducia delle persone nelle elezioni. Insomma contribuiscono ad avvelenare i pozzi, prerogativa soprattutto dei militanti di destra.

Dai No Vax ai fan di Bolsonaro, l’app preferita è Telegram
Nelle ore successive all’inizio dei disordini in tutto il Brasile, per esempio, gruppi che la pensano allo stesso modo in Nord America ed Europa sono entrati immediatamente in azione per manifestare solidarietà ai supporter di Bolsonaro e diffondere quei messaggi in tutto il mondo, principalmente attraverso Telegram, l’app di messaggistica crittografata fondata dall’imprenditore russo Pavel Durov e diventata la preferita da chi protesta, come abbiamo avuto modo di verificare anche in Italia con l’universo No vax. Stavolta il messaggio principale che si cercava di far passare era che le elezioni brasiliane fossero truccate, guarda caso una tesi molto simile a quella caldeggiata negli Stati Uniti dall’ex presidente Donald Trump, ma circolavano pure bislacche teorie di cospirazione secondo cui il cosiddetto “deep State” mondiale si nascondeva dietro la vittoria di Lula.

Musk ha tagliato i team che combattevano la disinformazione
I colossi dei social media non hanno creato dal nulla le divisioni politiche che ora stanno lacerando il Brasile. Ma di sicuro hanno contribuito a diffonderle, nonostante anni di promesse contro un certo tipo di propaganda. Spesso è una questione di risorse. Da quando Elon Musk ha rilevato Twitter alla fine di ottobre, per esempio, ha brutalmente tagliato i team interni incaricati proprio di combattere la disinformazione, compresa la persona che doveva monitorare la situazione brasiliana. Dal canto suo, Meta ha vietato annunci politici ingannevoli in Brasile, compresi quelli che mettevano in dubbio la legittimità delle elezioni di ottobre. Ma leader come Bolsonaro, con un ampio seguito online, hanno continuato a ripetere quelle insinuazioni prive di fondamento con poca o nessuna censura, mentre la parte del leone Zuckerberg l’ha fatta monitorando le elezioni di metà mandato negli Stati Uniti a novembre.

Servirebbe un “interruttore automatico” per spegnere gli algoritmi
Secondo Damon McCoy, professore alla New York University che studia le risposte dei social media davanti questo tipo di emergenze, le aziende non sono riuscite ad agire abbastanza in fretta per eliminare video, immagini e notizie faziose sugli assalti, consentendo alle fake news di circolare ampiamente online. Invece di concentrarsi sulla rimozione dei post, i giganti dei social media dovrebbero imporre una specie di “interruttore automatico” che spenga il modo in cui i loro algoritmi promuovono materiale pericoloso, oscurando certi hashtag. Altrimenti i team che moderano questi contenuti saranno sempre costretti a rincorrere, invano.