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Dopati d’indignazione

Like, condivisioni, retweet e l’onnipresente algoritmo aumentano il risentimento e la rabbia sui social. E stanno cambiando le discussioni politiche sul web. Lo conferma un recente studio dell’Università di Yale.

17 Agosto 2021 13:5017 Agosto 2021 14:08 Camilla Curcio
indignazione: come funziona sui social

Nella bolla dei social, i like e le condivisioni di un tweet o di un post spingono gli utenti a dare libero sfogo all’indignazione. Questo il risultato di un recente studio condotto da un team di ricercatori dell’Università di Yale che, prendendo in esame una selezione di conversazioni online, hanno individuato nell’engagement prodotto da un’opinione la scintilla che, spesso, alimenta accesissimi dibattiti tra internauti sdegnati.

L’algoritmo e il gradimento degli utenti infiammano la discussione

Focalizzandosi soprattutto su dialoghi e scambi a sfondo politico e monitorando 12.7 milioni di tweet scritti da 7331 profili, i ricercatori hanno provato a rintracciare e analizzare le espressioni di risentimento grazie all’aiuto di un software di machine learning. E hanno scoperto come, effettivamente, a rendere gli user sempre più indignati non sono altro che l’algoritmo e il gradimento pubblico che li spingono a continuare a esprimere e difendere il proprio parere, spesso con toni piuttosto accesi, nel contesto di una discussione con altri. Tendenza che, a seconda della situazione, può rivelarsi estremamente utile (se adoperata, ad esempio, per dare visibilità e risonanza a una questione urgente che i media tradizionali o la politica ignorano) o parecchio problematica (se un confronto di idee opposte finisce col trasformarsi in una lotta spietata all’ultimo insulto). «Negli ultimi anni, le ricompense garantite dai social media, in termini di pollici in su o retweet, stanno cambiando il tono delle discussioni politiche sul web», ha spiegato all’Independent William Brady, ricercatore del dipartimento di Psicologia dell’Università di Yale e membro del team della dottoressa Molly Crockett, autrice del report. «È proprio da Twitter o da Facebook che le persone, anche nella vita reale, imparano a dare voce alla propria disapprovazione. Perché lì, il meccanismo che sta dietro al funzionamento della piattaforma le ricompensa con uno, dieci, mille pollici in su e un feedback positivo che le convince della validità delle tesi espresse».

Una ricompensa che estremizza anche i moderati

Ma non è tutto. La ricerca, infatti, ha confermato anche come membri di gruppi politici estremisti diano voce alla propria disapprovazione molto più spesso e con modi molto più veementi rispetto a quelli utilizzati da adepti di fazioni più moderate. Tuttavia, questi ultimi sembrano essere molto più influenzati dal riscontro pubblico e dall’engagement generato dai propri contenuti rispetto ai primi. In poche parole, più accumulano like, più si sentono legittimati a esprimere idee e pareri rinunciando alla misura e alla diplomazia che, in genere, li contraddistingue. «Questo non è altro che lo stesso meccanismo che porta gruppi politici moderati a radicalizzarsi nel tempo», ha sottolineato Crockett. «I premi che l’algoritmo assegna e che riflettono l’approvazione di amici e follower rispetto a quanto pubblicato alimentano un loop che esacerba l’indignazione. Nel bene e nel male».

Se il web è ghiotto di polemiche e sensazionalismi

Già nel 2017, una ricerca effettuata da BuzzSumo, una compagnia che si occupa di aiutare le aziende a individuare i contenuti in grado di fare grandi numeri e accumulare view, aveva rivelato che le tematiche e le espressioni emotive, su Internet, ottengono performance di gran lunga megliori di argomenti e toni più low profile e poco affini al sensazionalismo. E, se posizionate al posto giusto, come il titolo di un giornale, hanno un impatto sul lettore enorme perché lo spingono a non fermarsi e a leggere tutta la notizia, approfondendola. Spesso, scoprendo dettagli e retroscena in più. Spesso, invece, non ritrovandovi nulla di quello che lo strillo in copertina aveva annunciato ma regalando comunque al sito una visualizzazione preziosa. L’idea che l’algoritmo alimenti l’indignazione di chi lo usa non è una novità: già nel 2020, infatti, Mark Zuckerberg e i vertici di Facebook avevano deliberatamente bloccato una serie di ricerche che dichiaravano, nero su bianco, quanto il social contribuisse a mettere gli iscritti uno contro l’altro, soprattutto quando si trattava di politica, e proponevano una serie di aggiustamenti per correggere il tiro e trovare una soluzione. Dare il via libera a queste sperimentazioni avrebbe portato, ovviamente, a un calo della presenza degli utenti sul social e, di conseguenza, anche dei profitti. Un sacrificio che, a Menlo Park, nessuno ha avuto il coraggio di fare.

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