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Smart working, un’occasione non colta: brusca frenata in Italia

Anche solo due giorni di lavoro da remoto a settimana farebbero risparmiare dipendenti (600 euro l’anno) e aziende (2.500 euro a persona). Riducendo le emissioni. Eppure, dopo la crescita dovuta alla pandemia, nel 2021 solo il 14,9 per cento degli occupati ha sfruttato l’opportunità. E il governo osteggia questa pratica.

5 Febbraio 2023 09:32 Giorgio Pirani
Smart working, un'occasione non colta: brusca frenata in Italia

Smart working, tutto da rifare. Dall’ultimo rapporto dell’Inapp, l’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche, presentate nel corso della giornata di studi “Lavoro agile, definizioni ed esperienze di misurazione”, il lavoro da remoto in Italia interessa appena il 14,9 per cento degli occupati, che hanno svolto parte dell’attività non in ufficio nel 2021. In piena pandemia, nel 2020, si era registrato un netto incremento della quota da un anno all’altro per cause di forza maggiore, e cioè le persone costrette in casa per evitare il diffondersi del contagio, ma meno di quello che si potrebbe immaginare: si era passati infatti dal 4,8 per cento dell’anno precedente al 13,7 per cento, cioè in sostanza una media annuale di 3 milioni di lavoratori, nonostante il picco di 4,5 milioni durante i mesi con maggiori restrizioni anti coronavirus. Non proprio un boom quindi. Nel 2021 l’incremento si è bruscamente fermato. Poco più di un italiano su 10 lavora a casa, segno che l’opportunità non è stata pienamente colta dalle aziende, considerando che – potenzialmente – la quota di persone potrebbero sbrigare le loro pratiche anche in smart working arriva quasi al 40 per cento.

Smart working, cioè lavoro senza orari e per obiettivi: tra il dire e il fare…

Piccola premessa: secondo la definizione del ministero dell’Istruzione e del merito, per lavoro agile (o smart working) si intende «una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato caratterizzato dall’assenza di vincoli orari o spaziali e un’organizzazione per fasi, cicli e obiettivi, stabilita mediante accordo tra dipendente e datore di lavoro; una modalità che aiuta il lavoratore a conciliare i tempi di vita e lavoro e, al contempo, favorire la crescita della sua produttività». Belle parole, ma che nella realtà, almeno nel nostro Paese, si traducono spesso in qualcosa di diverso: una semplice replica del lavoro, compresi orari e compiti, dall’ufficio alla propria abitazione.

Smart working, un'occasione non colta: brusca frenata in Italia
Una donna in smart working con i figli nel 2020. (Getty)

Più cresce di dimensione l’azienda, più le mansioni si potrebbero fare da casa

Tornando all’analisi Inapp, nelle imprese del settore privato extra-agricolo fino a cinque dipendenti l’84 per cento dei lavoratori svolge mansioni che non possono essere eseguite a distanza, ma al crescere della dimensione dell’azienda si riduce questa quota (il 56,4 per cento fra quelle medie, cioè da 50 a 249 addetti, e il 34,2 per cento fra le realtà con oltre 250 addetti). Eppure, nel 2021 solo il 13,3 per cento delle imprese intervistate da Inapp ha utilizzato questa modalità.

I Paesi Bassi erano già avanti nel 2019: il 37,5 per cento da remoto

A svolgere un lavoro da remoto sono soprattutto i laureati, i dipendenti delle imprese di grandi dimensioni, gli occupati nei servizi e i dipendenti pubblici. Incidenze leggermente superiori alla media delle professioni telelavorabili si rilevano tra le donne, i residenti nel Nord Ovest e nel Centro e le persone con diploma. Nel 2019 solo il 14,6 per cento degli occupati in Europa lavorava abitualmente da casa e lo scenario era piuttosto eterogeneo, con i Paesi Bassi che raggiungevano addirittura il 37,2 per cento. L’Italia, che nel 2019 aveva percentuali al di sotto della media europea, con l’emergenza sanitaria ha moltiplicato i valori, ma nel 2021 il tasso di crescita del ricorso al lavoro agile ha decisamente rallentato.

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Quel cambio di paradigma lavorativo che non c’è stato

Un’occasione non pienamente sfruttata, almeno per ora. Come afferma anche il presidente dell’Inapp, il professor Sebastiano Fadda: «Dai dati non emerge quel cambio di paradigma lavorativo che la pandemia sembrava aver innescato, almeno nel nostro Paese. È come se durante la pandemia avessimo vissuto in una grande bolla e il ritorno alla normalità stesse vanificando le potenzialità del lavoro a distanza, a causa di una ridotta capacità di introdurre radicali innovazioni nell’organizzazione del lavoro che preveda una combinazione di fasi di lavoro da remoto con fasi di lavoro in presenza».

I dipendenti risparmierebbero intorno ai 600 euro annui

Eppure l’impatto dello smart working è ancora conveniente per i dipendenti, nonostante l’aumento dei costi energetici: secondo i risultati dell’Osservatorio Smart Working della School of Management del Politecnico di Milano, un lavoratore che opera due giorni a settimana da remoto risparmia in media circa 1.000 euro all’anno per effetto della diminuzione dei costi di trasporto. Nella stessa ipotesi di due giorni alla settimana, l’aumento dei costi dei consumi domestici di luce e gas può incidere però per 400 euro l’anno, riducendo il risparmio complessivo a una media di 600 euro l’anno.

Le aziende potrebbero mettere da parte 2.500 euro l’anno a lavoratore

Ma la realtà è che lo smart working consente una riduzione dei costi potenzialmente più significativa per le aziende: permettere ai dipendenti di svolgere le proprie attività lavorative fuori della sede per due giorni a settimana ottimizzerebbe l’uso degli spazi, isolando aree inutilizzate e riducendo i consumi, con un risparmio potenziale di circa 500 euro l’anno per ciascuna postazione. Se a questo si associa la decisione di ridurre gli spazi della sede del 30 per cento, il risparmio aziendale può aumentare fino a 2.500 euro l’anno a lavoratore.

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Impatto ambientale: emissione di CO2 ridotte di 450 chili annui per persona

L’applicazione dello smart working permette anche di ottenere benefici a livello ambientale, riducendo le emissioni di CO2 di circa 450 chilogrammi annui per persona. Questo è il risultato di tre componenti su base annua: la riduzione degli spostamenti, che permette il risparmio di 350 chili di CO2, le emissioni risparmiate nelle sedi delle organizzazioni che hanno introdotto lo smart working (pari a circa 400 chili di CO2) al netto delle emissioni addizionali dovute al lavoro dalla propria abitazione (in media circa 300 chili di CO2). Considerando il numero degli smart worker attuali, pari a 3 milioni 570 mila lavoratori, l’impatto a livello nazionale calcolato sarebbe pari a 1 milione 500 mila tonnellate annue di CO2. Una quantità pari a quella assorbita da un bosco grande 8 volte il Comune di Milano.

Un’opportunità non colta nemmeno dal governo

Insomma, seppure sia stato dimostrato come lo smart working sia uno strumento pratico e utile per lavoratori e titolari di imprese (ma anche per bollette e ambiente), questo concetto non è stato recepito da tutti. E nemmeno dal governo che, nonostante le parole di apprezzamento sul lavoro da casa, ha deciso di non rinnovare l’accordo con la Confederazione elvetica per il telelavoro dei frontalieri tra Italia e Svizzera. Dal primo febbraio quindi, i residenti nella fascia di confine che lavorano in Svizzera dovranno svolgere la loro attività esclusivamente in sede; sono quasi 90 mila i frontalieri italiani che non potranno più lavorare da casa. Un brusco ritorno al lavoro.

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