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Una e Trinacria

C’è l’Isola da réclame di Camilleri e Savatteri. La terra che, con Sciascia, diventa metafora del mondo e delle sue contraddizioni. Oppure quella grottesca di Brancati. Così la letteratura ha raccontato una, nessuna e centomila Sicilie.

25 Luglio 2021 15:5725 Luglio 2021 15:57 Ulisse Spinnato Vega
i volti letterari della Sicilia

Non ci si può fermare alle spiagge da cartolina, al mare sprofondato nello smeraldo, al sole che abbaglia e scherza con l’ombra sulle forme del barocco, al cibo multiforme, turgido e colorato. Si può restare irretiti nella corona di isole piccole che circondano l’Isola grande oppure decidere di arrampicarsi sulle bocche di fuoco del “Mongibello”, ossia il monte bello, come i siciliani chiamano l’Etna. Ma tutto questo non basterà a entrare tra le pieghe dell’anima della Trinacria, che è come un piccolo universo, anzi un multi-verso dalle infinite dimensioni, che racconta l’esplosione della vita mentre fa i conti con la cappa atavica e sempre incombente della morte.

Siciliano, lingua senza il futuro

La Sicilia, un triangolo in mezzo al Mediterraneo abitato da genti meticce e sincretiche, che mescolano orgoglio isolano e scettico disincanto, allegria dirompente e fatalismo vittimista, spirito di accoglienza e sfumata diffidenza. Il siciliano ha una lingua senza futuro, perché il futuro è schiacciato dal peso di un passato gigantesco, e con all’interno una miriade di colori e di culture, come si conviene a chi è al centro del mare che è il centro della nostra civiltà.

La Sicilia da réclame di Camilleri e Savatteri

Una, nessuna e centomila Sicilie, parafrasando uno dei suoi figli più illustri, Luigi Pirandello. E sì, perché forse solo la smisurata letteratura dell’Isola può restituirci tutte le sfumature della sua indole. È un caso che la Trinacria sia l’unica regione a poter vantare due premi Nobel in questo campo? Forse no. Pirandello è uno di questi, assieme a Salvatore Quasimodo, ma è soprattutto il più efficace cantore del gioco ingannevole di bugia e verità che caratterizza il modo di stare al mondo in quella «aspra terra natìa circondata dal mare immenso e geloso». Eh sì, perché c’è tanto di più oltre i gialli di Andrea Camilleri e Gaetano Savatteri, che oggi vanno per la maggiore, trasformati con merito dalla tivù in narrazioni pop dal successo planetario. Un enorme spot per la Sicilia, certo, in cui anche il crimine e la morte sono filtrati, smussati, liquefatti negli scorci paradisiaci o ammansiti sotto tavole imbandite d’ogni meraviglia, mentre Montalbano parla una lingua ibrida in un territorio che vive da sempre di ibridazioni.

Sciascia e la Sicilia come metafora del mondo 

La morte, ecco. La Sicilia ci fa i conti da sempre per fame, stenti, guerre, cambi di dominazioni, epidemie, mafia. La esorcizza per i bambini con una festa, il 2 novembre, che è come Halloween prima che Halloween arrivasse in Italia. Nel sanatorio della Rocca «l’attesa della morte è una noia come un’altra», dice Gesualdo Bufalino nel suo capolavoro Diceria dell’untore. Raffinatissimo intellettuale, Bufalino era intimo amico di Leonardo Sciascia, il grande di Racalmuto che seppe indagare la Sicilia con sguardo da illuminista e abiti da scrittore, giornalista, poeta e politico. La sua Isola come «metafora del mondo odierno» e «rappresentazione di tanti problemi, di tante contraddizioni, non solo italiani ma anche europei».

L’essenza della sicilitudine

Sciascia vedeva salire via via verso Nord «la linea della palma» (da Il giorno della civetta), intesa come il dilagare del malcostume e della corruttela mafiosa. Tutta l’Italia è Sicilia, certo, ma il siciliano che va via poi non può che rimanere inchiodato al muro del nostos, del (mito del) ritorno. I portoghesi e soprattutto i brasiliani hanno costruito una narrazione luminosa sulla saudade, sulla nostalgia legata alla lontananza dalla terra d’origine. I siciliani non avrebbero potuto, perché la “sicilitudine” screzia l’amore con il rifiuto, l’attaccamento all’Isola con il cinismo circa l’ineluttabilità di una condizione di svantaggio, cinismo che si trasforma subito in alibi. Ecco perché quando Silvestro Ferrauto, il protagonista di Conversazione in Sicilia di Elio Vittorini, torna sull’Isola, guarda in faccia la malaria, la tisi, si confronta con uno spaccato sociale estremo e riscopre una terra inusualmente fredda, invernale, silenziosa, piena di ombre. Eppure, parlando con la madre, rievoca un passato gioioso e felice. Giano Bifronte.

L’Isola del grottesco dipinta da Brancati, Ciprì e Maresco

I siciliani hanno saputo fare i conti con la realtà come nessuno: è nell’isola che nasce il Verismo con Giovanni Verga e Luigi Capuana (anche Federico De Roberto visse quasi sempre a Catania). Ma in un luogo così, un inferno travestito da paradiso che subito diventa topos letterario, è pure facile rifugiarsi nella dimensione del grottesco venato di sarcasmo: un terreno che conosce enormi fortune in Sicilia, a partire dal teatro (ma non solo). Di fronte a una realtà mostruosa come certe maschere apotropaiche intagliate sui prospetti di chiese e palazzi, meglio allora giocare a deformarla ancora di più, per esorcizzarla. Come si dice: a brigante, brigante e mezzo. Ecco quindi i personaggi e le situazioni surreali del Don Giovanni in Sicilia di Vitaliano Brancati oppure, seguendo un filo lungo e sottile, le umane aberrazioni raccontate in anni recenti da grandi autori cinematografici come Daniele Ciprì e Franco Maresco. Insomma, si potrebbero ricordare tanti altri autori di successo, anche dell’ultima generazione: dal palermitano Alessandro D’Avenia (bellissima la sua descrizione del rapporto tra i siciliani e lo scirocco) alla messinese Nadia Terranova (da leggere Addio Fantasmi, a proposito del tema del nostos). Dopotutto, il filosofo ottocentesco tedesco Paul Yorck von Wartenburg diceva che la Sicilia è «l’isola in cui niente è stabile se non il movimento, il non-stabile, dove un giorno distrugge quanto l’altro giorno ha costruito». Proprio come i suoi vulcani sempre attivi. E i suoi gattopardi, antichi e moderni.

 

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