«I cinesi? Stanno invadendo la Russia. Non con carri armati, ma con le valige». Fino a qualche decennio fa si parlava apertamente di «pericolo giallo», e le parole pronunciate alla stampa, nel 2000, da Alexander Shaikin, l’allora capo dei servizi di guardia di frontiera russi, erano emblematiche del clima di reciproca diffidenza tra Mosca e Pechino. Prima che Vladimir Putin e Xi Jinping perfezionassero la partnership sino-russa (febbraio 2022), esisteva in effetti un nutrito filone di studi secondo i quali il governo cinese avrebbe gradualmente invaso la Siberia e, più in generale, i territori dell’Estremo Oriente russo. Stando a queste analisi, per altro diffuse in numerosi ambienti accademici, a causa di molteplici fattori – dalla sovrappopolazione ai cambiamenti climatici, dall’assenza di spazio coltivabile al rischio di restare a secco di risorse alimentari ed energetiche – il Dragone si sarebbe presto trovato di fronte all’esigenza di espandersi oltre la Muraglia a spese di Mosca.

In gioco c’è anche il gasdotto Power of Siberia 2
Ancora nella seconda metà degli Anni 10 del 2000, si continuava a parlare della diffidenza di Putin nei confronti del vicino cinese. Un vicino sì necessario per controbilanciare gli Stati Uniti e con il quale chiudere interessanti affari, ma al tempo stesso pericoloso per la sua ambizione di rosicchiare tanto il cortile di casa russo in Asia Centrale, quanto, soprattutto, intere parti del territorio controllate dal Cremlino. Nel frattempo il mondo è cambiato, è scoppiata una pandemia e gli equilibri globali sono stati alterati da tensioni e guerre calde, l’ultima in ordine cronologico in Ucraina. Russia e Cina si sono quindi avvicinate per contrastare un nemico comune, gli Usa, nascondendo le contraddizioni che potrebbero minare la loro ambigua relazione di comodo. Il risultato è che oggi, quando parliamo di Siberia, lo facciamo in relazione al gasdotto Power of Siberia 2, l’infrastruttura che, nei prossimi anni, dovrebbe collegare i giacimenti di gas siberiani alla Cina attraverso la Mongolia. Eppure, a ben vedere, le mire cinesi sull’Estremo Oriente russo sono rimaste latenti.

Investimenti cinesi per 165 miliardi di dollari su 79 progetti
Da quando Xi e Putin hanno dato vita all’«amicizia senza limiti» tra Russia e Cina, il nodo siberiano è rimasto tuttavia irrisolto. Nei mesi scorsi, il primo ministro russo Mikhail Mishustin aveva infatti promosso una proposta per far confluire investimenti cinesi, dal valore di 165 miliardi di dollari, in 79 progetti dislocati nei settori energetico, agricolo e minerario. Dell’intera vicenda, ma anche delle mosse di Pechino in loco, sono però emersi pochissimi dettagli. Dalle parole di Putin, sappiamo soltanto che il piano di sviluppo della Russia in Estremo Oriente avrebbe incluso progetti metallurgici, macchinari e oleodotti. Attenzione però, perché molti commentatori cinesi hanno chiesto la risoluzione delle controversie sulla sovranità di quei territori, prima di impegnare capitali nella regione.

I rischi di una escalation della guerra e di eventuali sanzioni
Emerge dunque una divergenza tra la visione russa e quella cinese. Mentre a dicembre del 2022 il quotidiano russo Ng.ru scriveva che Mosca avrebbe istituito una regione economica speciale nell’Estremo Oriente, coprendo un’area di 6,96 milioni di chilometri quadrati adibita esclusivamente per gli investimenti cinesi, diverse voci cinesi facevano notare come le aziende della madrepatria avrebbero dovuto prestare attenzione ai rischi di investimento derivanti dall’operare in Russia. Quali rischi? Intanto l’eventualità, non troppo remota, di un’ulteriore escalation nel conflitto tra la Russia e l’Occidente, tale da costringere Pechino a recidere sempre più legami economici con il Cremlino, onde evitare la spada di Damocle delle sanzioni. Senza dimenticare che le casse economiche russe potrebbero essere vuote, e quindi incapaci di adempiere ai vari accordi conseguiti.

L’atavica fame cinese di gas e petrolio
Al netto di qualsiasi partnership, la logica che spaventa il Cremlino è che la Siberia è ricca di risorse ma povera di persone, mentre la Cina può contare su una popolazione enorme, di oltre 1,4 miliardi di cittadini, e su una fame atavica di gas e petrolio necessaria per alimentare un motore sempre più pretenzioso. Aggiungiamo il fatto che Mosca e Pechino condividono un confine di 4.250 chilometri, e che questa frontiera è l’eredità della Convenzione di Pechino del 1860, e di altri patti ineguali tra una Russia forte e in espansione e una Cina indebolita dopo la seconda guerra dell’oppio, e la situazione apparirà più nitida. Nel 1860, l’Impero russo conquistò infatti il territorio cinese in Estremo Oriente, annettendo 350 mila miglia quadrate della Cina della Manciuria (una porzione di terra grande più o meno quanto le dimensioni della Nigeria), compresa la strategica costa del Pacifico, e dunque Vladivostok. Quando lo zar cadde, nel 1911, la Mongolia dichiarò inoltre la sua indipendenza con il sostegno dell’Unione sovietica. Russi e cinesi firmarono in seguito alcuni trattati per risolvere le controversie sulla sovranità dei territori recisi al Dragone. Ricordiamo che l’ultimo accordo, attualmente ancora valido, è stato siglato nel 2006.
Tecniche d’invasione: prima i passaporti, poi l’occupazione militare
La Siberia, abitata da circa 34 milioni di abitanti, è un ricco deposito di materie prime. Fornisce alla Cina petrolio, gas e legname, e, tra matrimoni misti, investimenti cinesi e commercio, si sta rendendo conto che Pechino è molto più vicina di Mosca. Unendo tutto questo, ha riassunto l’Asia Times, nessuno è in grado di garantire al Cremlino che il Dragone non possa, prima o poi, utilizzare la stessa strategia adottata più volte dai russi per inglobare nuovi territori: ossia distribuire passaporti ai cittadini delle aree contese, per poi intervenire militarmente con il pretesto di proteggerli. La Federazione Russa ci ha provato o è intervenuta in Transnistria, Abkhazia, Ossezia del Sud, e più recentemente in Crimea e nel Donbass. Dulcis in fundo, ricordiamo che l’economia russa dipende in modo sproporzionato dalle risorse siberiane. Circa l’80 per cento delle risorse petrolifere, l’85 per cento del gas naturale, l’80 per cento del carbone e simili quantità di metalli preziosi e diamanti, oltre a circa il 40 per cento delle risorse di legname, sono sparse in questa enorme terra sperduta.