Era il 2 giugno del 1975 quando decine di prostitute decidevano di radunarsi, occupandola, nella chiesa di Saint-Nizier a Lione. Chiedevano la fine degli arresti e dei soprusi da parte della polizia. Chiedevano rispetto e diritti. Fu l’inizio in tutta Europa delle lotte organizzate per il riconoscimento del lavoro sessuale. Ed è per questo che il 2 giugno si è celebrato nel mondo quello che in origine prendeva il nome di “International Whore’s’ Day”, il giorno delle prostitute, poi evoluto in “Sex Workers Day”, la giornata internazionale delle lavoratrici e lavoratori del sesso.
Nel nostro Paese operano almeno 120 mila sex worker
Cade ogni anno insieme alla Festa della Repubblica italiana e forse anche per questo in Italia non se n’è mai parlato troppo, mentre nel resto d’Europa sono tanti gli eventi che cercano di riaprire dibattito attorno a questo tema. Eppure, secondo una recente ricerca condotta da Escort Advisor, il sito di recensioni escort più visitato in Europa, il nostro Paese conta almeno 120 mila professioniste e professionisti del sesso. Lo status lavorativo di chi esercita sex work è paragonabile, ma non riconosciuto come tale, a quello dei liberi professionisti. Se esistesse un ordine professionale, quindi, sarebbe il quarto gruppo di lavoratori indipendenti più numeroso in Italia, alle spalle di medici e odontoiatri, avvocati, ingegneri e architetti, ma prima di farmacisti, geometri, commercialisti, psicologi e infermieri.

Il paradosso italiano: prostituzione legale ma non regolamentata
Il paradosso, o meglio l’ipocrisia, sta nel fatto che in Italia la prostituzione è legale ma non regolamentata. Forse perché è pensiero radicato nella nostra società che la prostituzione sia inevitabilmente legata allo sfruttamento: non si crede possibile la consapevole scelta di utilizzare il proprio corpo liberamente per lavorare e guadagnare attraverso il sesso. La legge Merlin, mai modificata dal legislatore dalla sua approvazione nel 1958, è infatti un tipico caso di legge abolizionista: non proibisce lo scambio di sesso contro denaro ma criminalizza qualsiasi tipo di condotta ancillare: non solo l’adescamento, l’istigazione e lo sfruttamento, ma anche, e in maniera molto ampia, l’agevolazione e il favoreggiamento, al fine di contenere la pratica. Leggi penali di questo tipo hanno finito però – tanto nell’opinione pubblica (attraverso disinformazione e stigma) quanto nella prassi dei tribunali (attraverso azioni penali e processi) – per prendere di mira le lavoratrici e i lavoratori del sesso stessi, i loro clienti, le persone che possiedono o gestiscono locali o i proprietari di case dove i locatari svolgono sex work, colpendo attività non solo inoffensive ma utili per lavorare in condizioni più sicure. Lo stesso risultato, se non peggiore, che si è ottenuto in questi anni con l’utilizzo illegittimo e sempre più frequente di poteri locali, quali le ordinanze dei sindaci o i regolamenti comunali di polizia che sanzionano condotte di “adescamento” e di “oscenità” della prostituzione su strada. Tutto ciò porta alla luce il paradosso del sistema italiano: benché autodeterminata, la libertà di prostituirsi resta assoggettata a numerose limitazioni, e tale imposizione si riflette nella considerazione, sociale e normativa, della e del sex worker come soggetto immorale quando non pericoloso. L’impossibilità di pretendere il pagamento della propria prestazione davanti a un giudice per contrarietà al buon costume, o di rilascio o rinnovo del permesso di soggiorno, sempre a causa di un giudizio di moralità, sono solo alcuni dei numerosi esempi della stigmatizzazione e discriminazione riservata alle persone che si prostituiscono. Addirittura una delle ultime sentenze sul tema, la 141 del 2019 della Corte Costituzionale, equiparava di fatto le lavoratrici sessuali a persone incapaci di intendere e di volere.
La decriminalizzazione rende il lavoro più sicuro
È per questo che la decriminalizzazione del sex work – ossia la rimozione di tutti gli ostacoli normativi relativi al sex work, unitamente al riconoscimento dello stesso come lavoro – risulta la più forte strategia per migliorare le condizioni di salute e, più in generale, i diritti fondamentali dei sex worker, delle loro famiglie e della società in generale. Secondo Amnesty International, con la decriminalizzazione chi esercita sex work può accedere a condizioni di lavoro più sicure e lì dove vige questo modello, come in Nuova Zelanda, la prostituzione minorile e il traffico di esseri umani vengono perseguiti e puniti con maggiore forza. Dove invece le sex worker vengono criminalizzate vige il far West, come negli Stati Uniti. L’Italia vive come al solito in un limbo. Ma a oltre 60 anni dall’introduzione della Legge Merlin, appare insensato e impraticabile tanto la difesa di una legge inefficace e di fatto criminalizzante quanto la restaurazione di un sistema di controllo pubblico e ghettizzante della prostituzione come quello delle cosiddette case chiuse. Alla luce dell’esperienza nazionale, dei modelli internazionali, dei cambiamenti intervenuti in questo settore e dei contribuiti offerti dalle tante organizzazioni di sex worker, diviene urgente riaprire il dibattito su questo tema nel nostro Paese. Un dibattito che sia ampio, aperto e scevro da tabù, che miri anzitutto a rimuovere la cappa di stigma e disinformazione che ancora impedisce che al riconoscimento di libertà sessuali si possano (e debbano) accompagnare diritti, legittimazioni e tutele. Un dibattito, in definitiva, che si ponga l’obiettivo politico e culturale di arrivare a riconoscere pienamente una scelta individuale, riducendo i costi sociali connessi a un fenomeno che non è possibile vietare o cancellare per legge.
*Avvocata, Tesoriera Radicali Italiani