Giovedì. Esco da Serendeepity in corso di Porta Ticinese con il vinile dei Sex Pistols sottobraccio e mentre mi dirigo al palo di fronte a Gallon per slegare la mia bici Rossignoli color blu diplomatico sbatto letteralmente addosso a una ragazza con il cappuccio della felpa tirato su.
«Ehi, ma che cazz…», dico.
«Guarda dove cammini!», risponde la ragazza con il cappuccio della felpa tirato su. Lancio un’occhiata da sopra gli occhiali e sbalordito esclamo: «Lo sapevo che questa tipa gangster che mi sbatte addosso non potevi che essere tu! Sofia!».
«Andrea!», mi dice una voce da sotto il cappuccio. «Cosa ci fai con qui con un vinile sottobraccio e una spilla da balia sul cappotto?».
«È un Montgomery, bella, me l’ha regalato Massimo Piombo in persona».
«Chi è Massimo Piombo?».
«Uno stilista che ho conosciuto ieri. Mi hanno invitato nei loro mega uffici in Via Dante e mi hanno accolto come un Re. Camerieri in livrea mi servivano dolci, caffè, acque minerali. Mi hanno regalato una orda piena di loro prodotti per ringraziarmi di un apprezzamento spontaneo che avevo scritto su di loro nella mia rubrica di racconti su Tag43. Trovo la sua visione democratica della moda al giorno d’oggi quasi un atto politico».
«Fai così il tranquillo adesso ma conoscendoti chissà come ti ha fatto piacere. Ego a mille eh?».
«Eh vabbè, quello sempre bambina. Son fatto così».
«E il disco, che roba è?».
«Questo non è un vinile qualsiasi, è Never Mind the Bollocks dei Sex Pistols! Una roba mitologica. Ci sono le radici del punk qui dentro, o come disse Malcolm McLaren, che costruì la band a tavolino partendo da un negozio di abbigliamento che aveva all’epoca a Londra con sua moglie, una certa Vivien Westwood, qui dentro c’è la più grande truffa del rock and roll. C’è una serie su Disney Plus di Danny Boyle assolutamente ragguardevole che racconta la loro storia. Devi assolutamente vederla! Si chiama Pistol».
Poi ci abbracciamo, sento il suo profumo, mentre un gruppo di giovani ragazze ci passano di fianco in una sorta di trance reggendo materassini da yoga. Io mi metto in posa, mi mordo il labbro inferiore, mi accendo una sigaretta e di colpo ho di nuovo 18 anni.
«Dove stai andando così di corsa?», chiedo.
«Sto andando a fare delle fotocopie per l’università, sto seguendo un corso di criminologia fighissimo, mi sono innamorata del mio professore. Ho un problema con i ragazzi grandi, lo sai».
«Ma non uscivi con il nipote di Deleterio?».
«Naaah, andato, nessuno riesce a tenermi. Sto uscendo con un tipo di 25 anni ora».
«Anche lui una rap star?».
«No, un intellettuale questa volta. Siamo andati a vedere Triangle of Sadness l’altra sera. Più tardi andiamo a vedere il nuovo di Guadagnino, guarda!», mi dice, indicando un gigantesco manifesto con Timothée Chalamet e una bellissima ragazza indiana con in sovrimpressione la scritta Bones and All a caratteri cubitali che troneggia sopra le nostre teste.
«Grande Guadagnino. Tra gli italiani uno dei miei preferiti. Triangle of Sadness voglio andare a vederlo da tre settimane ma ancora non ci sono riuscito. Ho sempre un casino di roba da fare. Stiamo cercando una libreria per casa, doppio turno fisso al bar, sempre i soliti mille articoli da scrivere oltre a tutto il resto».
«E la radio?».
«Ho delle idee per un nuovo programma. Mi manca un sacco non poter più mettere della musica, scegliere i dischi per la trasmissione, esplorare sempre nuovi confini. Te l’ho già detto, quando uno nasce deejay ci rimane tutta la vita». Faccio una pausa per enfatizzare la cosa e poi aggiungo: «Vedremo! Fino a gennaio comunque non ho intenzione di impelagarmi in nessun nuovo progetto».
Sofia mi fissa, il suo sorriso bianchissimo mi acceca. Poi ci salutiamo velocemente, perché sono già in ritardo e devo assolutamente andare. Dieci minuti più tardi sono seduto nello studio del mio psycho in via del Torchio e durante tutta la seduta parliamo di mia madre, di mio fratello Stefano, e dell’essere orfani. Cosa, tra l’altro, che mi riesce abbastanza bene. A casa prima di andare al lavoro metto il vinile dei Sex Pistol sul piatto e quando parte Anarchy in the U.K. penso al giorno dell’arresto, alle catastrofi in serie che mi capitarono e a quanto quel periodo fu in assoluto uno dei più tremendi della mia vita.
Farmi di ecstasy ultimamente è l’unica cosa che conta. Voglio solo ballare e ascoltare musica a volumi assordanti, fino a che sto in piedi, fino a che non collasso. Il resto è tutto una merda
20 gennaio 2003. Serata al Matis Club di Bologna. In consolle Ralf. Les Folies de Pigalle. È il mio 23esimo compleanno e sono completamente fuori di testa. Ho preso due pastiglie di ecstasy e un paio di beveroni di MDMA. Ballo con le pupille ribaltate in piacerone fino alle cinque del mattino. Con me Dodo, Dekilash e un paio di altri amici. Finiamo alle sette ad un after, c’è Giusy Consoli che mette i dischi. Un altra pastiglia di ecstasy, un altro beverone di MD. Entro in un buco spazio temporale, sono nella tana del bianconiglio. Farmi di ecstasy ultimamente è l’unica cosa che conta. Voglio solo ballare e ascoltare musica a volumi assordanti, fino a che sto in piedi, fino a che non collasso. Il resto è tutto una merda. Non scopo. Non ho una donna. Mia zia sta morendo lentamente. Dopo che l’anno scorso casa nostra in Piazza Adigrat è stata ipotecata dalla banca il mese scorso siamo stati sfrattati anche dall’appartamento dove abitavamo in Viale Corsica. Ho il conto in rosso di 20 milioni di lire. Voglio solo farmi, di continuo. E la domenica calare. Come adesso, che è il mio compleanno e mentre ballo non me ne frega un cazzo di niente. Poi la festa finisce e, di colpo, dopo il viaggio in macchina e una serie di tappe in tutti gli autogrill sulla strada dove rubiamo decine di lattine di birra a testa, mi ritrovo con gli altri in una via chiusa davanti alla mia vecchia casa in viale Corsica intorno alla macchina di Dodo parcheggiata, con Anarchy in the U.K. dei Sex Pistols sparata a massimo volume che esce dalle casse dello stereo dell’auto. Abbiamo un’autentica ossessione per questo pezzo perché un paio di settimane fa Ralf, all’Adrenaline di Reggio Emilia, lo ha messo come disco di chiusura e siamo impazziti tutti. Lo ascoltiamo in loop per decine di volte, rolliamo uno spino dopo l’altro e, a un certo punto, perdiamo completamente la testa e iniziamo a sfasciare tutte le macchine parcheggiate nella via. Saltiamo sui cofani e sui tetti delle auto, sfondiamo i parabrezza e i finestrini con una mazza da baseball mentre la bronchia al vetriolo del vecchio Lyndon grida a squarciagola: “Oh I am an anti-Christ/ And I am an anarchist/ Don’t know what I want/ But I know how to get it/ I want to destroy your passion boy/ ‘Cause I, I want to be, anarchy/ In this fuckin’ city”.
Una volta Ulrike Meinhof ha detto: «Se uno lancia un sasso, il fatto costituisce reato. Se vengono lanciati mille sassi, diventa un’azione politica. Se si dà fuoco a una macchina, il fatto costituisce reato. Se invece si bruciano centinaia di macchine, diventa un’azione politica. Protesta è quando dico che una cosa non mi sta bene. Resistenza è quando faccio in modo che quello che adesso non mi piace non succeda più». Nessuno di noi però sa chi sia Ulrike Meinhof e soprattutto nessuno di noi si rende conto che siamo a Milano, a pochi metri di distanza dal centro città, che è un tranquillo lunedì di un giorno feriale e che soprattutto è mezzogiorno. Siamo tutti fuori come delle scimmie e quando arrivano quattro volanti della polizia a sirene spiegate le guardiamo semplicemente stupefatti come se nessuno di noi in quel momento capisse cosa stava realmente succedendo. Il risultato sono le manette, una giornata in questura in via Fatebenefratelli e una totale incredulità per quello che è appena accaduto. Come se la cosa non ci riguardasse e a sfasciare tutte le macchine della via fosse stato qualcun altro. Quando ci portano in questura, dopo i sorrisi mentre ci scattano le foto segnaletiche, io non ho come sempre dietro i documenti. Così, mentre dico a voce le mie generalità al poliziotto che mi sta prendendo le impronte digitali: «Nome: Andrea. Cognome: Frateff-Gianni. Nato a: Milano, il 20 gennaio del 1980», mi sento rispondere: «Ma è oggi il 20 gennaio!». Ed è quello il momento in cui beffardamente ho il coraggio di ribattere: «Ognuno festeggia il compleanno come meglio crede».

Domenica. È domenica mattina, novembre, fuori si gela. Poca voglia di alzarsi, di uscire dal letto, di togliersi il pigiama. Gironzolo per casa solo per prepararmi il caffè, per recuperare l’iPad, per dare un’occhiata ai giornali. Ofelia è sdraiata di fianco a me, illuminata solamente dalla luce che filtra dalle persiane chiuse, e mentre la osservo la trovo molto indigena con la canottiera bianca e dei boxer leggeri a piccoli fiori gialli. Poi mi infilo le mie mega cuffie Marshall da dj e mi metto a guardare sull’iPad un documentario presentatol’annio scorso in Triennale su Beppe Modenese, il Richelieu della moda, scomparso in questi giorni esattamente due anni fa. Per chi non lo sapesse Giuseppe Modenese, detto Beppe, gentiluomo d’altri tempi, è stato il creatore della moda milanese ed il presidente onorario della Camera Nazionale della Moda. Sempre elegantissimo aveva due sarti di fiducia, Caraceni e Rubinacci, le camicie su misura le faceva confezionare solo da Siniscalchi, via Montenapoleone, e sempre con i gemelli, le scarpe esclusivamente da Barrett di Parma e il profumo Ormonde, fuori produzione, che l’azienda produceva solo per lui. La leggenda narra che dormisse nudo perché era l’unica cosa che lo facesse sentire libero. Non si separava mai dal suo bastone con il pomello in avorio al quale si appoggiava, passeggiando indifferentemente per le vie del centro di Milano o mentre si dirigeva a colazioni di lavoro sulla 5th Avenue a Manhattan, e come vezzo aveva quelli di portare sempre calze rosse. Il primo paio glielo donò il pittore Balthus e da allora non smise mai di portare calzini rossi che esibiva con la sua innata eleganza, quella di un uomo che, dal nulla, ha creato il “made in Italy” diventando una delle figure centrali della moda nel mondo. Mentre lo sento parlare rifletto su quanto sia differente lo stile di un altro personaggio di cui si è dibattuto molto questa settimana per il suo abbandono come direttore creativo da Gucci: Alessandro Michele. Se posso pensare a una figura più lontana da Modenese forse quella di Michele è la prima che mi viene in mente (come ha scritto Michele Masneri nel suo Dinastie, un tizio che sembra «per metà Calcutta e per l’altra metà Tomas Milian»). Le sue dimissioni da Gucci, ciò nonostante, hanno creato un vero terremoto nel mondo della moda, poiché a detta di tutti è stato l’unico nel riuscire a compiere il miracolo di traghettare la maison fiorentina dai fasti del passato al colosso attuale. Michele non si veste come un gentiluomo d’altri tempi ma come i suoi amici Harry Styles e Jared Leto, nutrendosi in maniera maniacale di accessori, gioielli soprattutto e costosissimi orologi, come il Santos Galbée, una rivisitazione del 1987 dell’iconico Cartier Santos. Il design originale fu il primo completamente realizzato in acciaio della casa francese, mentre il modello che indossa Alessandro Michele è in oro giallo. Del resto cambiano i tempi e insieme a loro cambiano anche i riferimenti e i canoni estetici. Il fatto che per me Beppe Modenese rifletta il significato di buon gusto in fondo vuol dire che sono pur sempre un uomo del Novecento, educato in una certa maniera, che ancora conosce le buone regole del galateo (che poi mi sia trovato ad infrangerle numerose volte è un altro discorso). Questo probabilmente è uno dei motivi per il quale alla fine del documentario, una volta chiuso l’iPad guardo Ofelia di fianco a me e le dico: «Che ne pensi di sposarci? La Lega ci darebbe anche 20k. Si potrebbe fare una festa pazzesca».