Abito in una casa minuscola al pian terreno che sto finendo di sistemare con l’aiuto di Michele, il figlio di Linus di Radio Deejay, anche se non l’ho mai visto prima. Sembra casa mia in via Tiepolo anche se c’è qualcosa di diverso, di dissonante. Sofia osserva dalla finestra quello che rimane delle torri di Nôtre Dame con una sigaretta di tabacco che si è appena rollata, mi sorride e si muove per la minuscola casa con indosso solamente un paio di slip, i capelli sciolti lungo le spalle. Poi mi si avvicina, appoggia le labbra tenerelle sulle mie e sorride di nuovo, prima di scomparire verso il bagno, probabilmente in cerca di una doccia. Cinque minuti dopo qualcuno bussa alla porta e quando apro trovo Giacomo e Marco Seta, due miei colleghi del bar, in compagnia di un tipo che non conosco, che provano a entrare in casa senza che nessuno li abbia invitati, così chiudo la porta di scatto molto infastidito urlando: «Cosa volete?», tornando verso il letto. Quando mi sveglio osservo Ofelia che dorme accanto a me, allungo una mano sul comodino, trangugio due Xanax e afferro la bottiglia d’acqua mezza aperta che tengo sempre di fianco al letto e mi rimetto a dormire, anche se sono pervaso da un senso di malessere estremamente potente. Un’ora più tardi mi rendo vagamente conto che mi sto lavando i denti sotto la doccia.
Ho iniziato a tifare Milan nel 1987, a sette anni, un pomeriggio tornato a casa da scuola nel quale mi ero reso terribilmente conto che ero uno dei pochi della mia classe a non avere ancora una squadra del cuore
È domenica, oggi si assegna lo scudetto e il Milan non deve assolutamente perdere a Reggio Emilia con il Sassuolo. Per tutta la giornata ho nausea e conati di vomito. Poi ci pensa Olivier Giroud che ne mette due, Leao è devastante e dopo il terzo gol di Kessie siamo di nuovo Campioni d’Italia dopo 11 anni e io mi trasformo in un misto tra Diego Abatantuono nei panni del Ras della Fossa e Peo Pericoli. Ho iniziato a tifare Milan nel 1987, a sette anni, un pomeriggio tornato a casa da scuola nel quale mi ero reso terribilmente conto che ero uno dei pochi della mia classe a non avere ancora una squadra del cuore. Diventai milanista grazie a mio fratello Stefano e da quel momento in poi sviluppai un attaccamento viscerale ai colori rossoneri, quasi patologico. E così se chiudo gli occhi li rivedo tutti quei momenti, uno dopo l’altro. Momenti che partono con me in via Amedeo d’Aosta che giro agitato a otto anni in un pomeriggio di maggio dell’88 per il principesco appartamento, con indosso la maglia di Gullit, mentre ascolto alla radio il Milan che si gioca lo scudetto al San Paolo contro il Napoli di Maradona. Momenti che proseguono con immagini di me che salto sul divano in salotto davanti alla tv un pomeriggio di novembre dello stesso anno mentre Giovanni Galli para il rigore decisivo alla Stella Rossa a Belgrado in un match di Coppa dei Campioni e mi abbraccio fortissimo con mio fratello. E ancora: l’abbraccio tra Gullit e Van Basten al Camp Nou di Barcellona, la corsa di Rijkaard al Prater di Vienna, il gol capolavoro di Savicevic ad Atene contro il Barcellona di Cruijff, gli occhi da cerbiatto di Sheva prima di calciare il rigore decisivo a Manchester davanti a Buffon, e io e DFA che, pazzi di gioia, applaudiamo coi piedi, stesi per terra a casa sua in Via Venini. Oppure: alla faccia da pazzo di Inzaghi in ginocchio di fianco alla bandierina del corner dopo il secondo gol nella rivincita con il Liverpool, al gol di Ronaldo a San Siro nel “derby delle orecchie”, alla gioia di Boban e Weah che corrono in mezzo al campo, tenendosi per mano, l’anno dello scudetto di Zac. Senza dimenticare, ovviamente, tutti gli anni a San Siro, in coppia con il fido Baj, al primo anello blu, a urlare e strafarci di lotti o le serate a casa di Dodo in via Ampère, a seguire le partite di Champions con tutti i regaZ. Perché in fondo è questo per me il tifo, l’amore per il Milan, una sensazione che provo ancora tutte le settimane quando vedo i colori rossoneri scendere in campo e che di colpo mi fa tornare ad essere quel bambino di nove anni a cui veniva dato eccezionalmente il permesso di rimanere alzato per vedere le partite di Coppa dei Campioni fino alle 10 e mezza di sera. Ed è a questo che penso mentre sono dietro ad Ale Cash, sulla sua Vespa gialla, in giro per Milano, urlando a squarciagola «Milano siamo noi!» alla fine di questa assurda domenica di fine maggio.

Ultimamente c’è stata una sorta di riavvicinamento con Ale, un amico di vecchia data, che conosco da quando ho tipo 14 anni e con il quale negli anni abbiamo avuto rapporti altalenanti, prima di frequentazione assidua, poi più nulla. Anche se a dire il vero i motivi per cui non ci siamo più visti ne sentiti in realtà mica li ho mai capiti. Con Cash ci siamo conosciuti tra le aule e i corridoi del bigio liceo scientifico Alessandro Volta, entrambi pierre di punta della discoteca minorile Madame Claude di Piazza San Babila, a un certo punto abbiamo deciso di metterci in società e creare il Gruppo Spider, nome scelto per caso una sera al telefono, consultando il catalogo degli Swatch di suo padre, che successivamente mi è rimasto appiccicato addosso più o meno fino ai 30 anni e che ha accompagnato tutta la mia sfolgorante carriera da vocalist, prima di mettermi a fare il deejay alla radio. Il Madame Claude e il suo sabato pomeriggio sono stati per quel periodo il ritrovo dei figli della buona borghesia milanese, ci si ritrovava in Piazzetta Giordano tutti vestiti uguali, come in divisa, con i Barbour e le polo Ralph Lauren, i Levi’s 501 e le Stan Smith ai piedi. Io e Ale rivaleggiavamo all’ultimo pagante con i Toys, dei ragazzi di Porta Romana con i quali ci dividevamo il trono di pierre più forti, poi lui decise di abbandonare, si licenziò, ruppe la società e io proseguii da solo, diventando Andrea Spider, per molti la voce numero 1 a Milano. Con Cash siamo stati per un lungo periodo anche nella stessa compagnia, i PMB, Pochi ma Buoni. Il che voleva dire vedersi praticamente tutti i giorni, passare insieme tutti i fine settimana e trascorrere le vacanze estive assieme. I pomeriggi a fumare hashish davanti alla play station giocando a PES, gli aperitivi con i regaZ alle Corti di Bayres e le sere in coppia, in motorino, a fare i giri per tutte le discoteche di Milano, dove entravamo senza pagare e bevevamo gratis dappertutto. Avevamo all’incirca 18 anni. Dell’onnipotenza della quale ero vittima in quel periodo ho già parlato ma forse è il caso di tornarci sopra un attimo anche perché, parafrasando la celebre frase finale di Stand by me: «Non ho mai più avuto amici come quelli che avevo a 18anni. Gesù, ma chi li ha». Abbandonata la casa in via dei Transiti mi ero trasferito con mia zia nel piccolo ma delizioso appartamentino di Piazza Adigrat da un paio d’anni, avevo fantasticato di pubblicare il mio diario a puntate su qualche rivista e dopo essere stato cacciato anche dal Volta mi ero iscritto, dopo due bocciature in tre anni, all’Istituto Pascoli di via Poerio, una piccola scuola specializzata in recupero anni che pagavo con assegni firmati a mio nome, grazie a quel poco rimasto del fondo fiduciario lasciatomi da mia madre. Fu quello il periodo in cui conobbi nel palazzo di Piazza Adigrat il fido Baj, che mi chiamava Sanka, a scuola il compagno d’attacco Dikio, con il quale esplorai le porte della percezione portando il confine sempre oltre come mai successivamente mi riuscì con nessuno, e Ale Francia, che l’anno dopo mi fece rientrare nel mondo delle discoteche, che nel frattempo avevo abbandonato, dalla porta principale, inventandomi come vocalist, mettendomi in consolle e facendomi diventare un’autentica superstar.
Ho avuto nella testa la sua faccia perfetta per molti anni da quella mattina in poi, come fosse un’edizione speciale di un telegiornale che va in onda sempre
Con Geraldine ci eravamo già lasciati, anche se io continuavo a tormentarla con lunghissime lettere e scritte sotto casa che andavo a fare la notte con le bombolette spray in bicicletta completamente strafatto. Le scrivevo Je t’aime sul citofono o sul portone, le tendevo agguati, le mandavo sconclusionati messaggi nel cuore della notte. Tutti facevano un sacco di sesso e io non avevo una donna, non avevo una famiglia, ero stato cacciato da tutte le scuole che frequentavo e l’ammontare della cifra spesa mensilmente della mia carta di credito era circa di cinque milioni di lire al mese. La stessa estate poi a Ios, in Grecia, in vacanza con tutta la cumpa, due giorni prima di partire, una mattina all’alba vidi Lucilla per la prima volta e da quel momento in poi nulla fu più lo stesso. Segno dello Scorpione, classe 1979, all’epoca Lucilla aveva 19 anni. Labbra piene, ossatura sottile, seno abbondante, gambe lunghe e muscolose, zigomi alti, grandi occhi verde naviglio, pelle perfetta, un sorriso che non diventava mai una smorfia. Come la vidi fu un autentico colpo di fulmine. Ho avuto nella testa la sua faccia perfetta per molti anni da quella mattina in poi, come fosse un’edizione speciale di un telegiornale che va in onda sempre. Restò nella mia vita, considerando una serie di tira e molla che definire estenuanti risulterebbe a dir poco riduttivo, più o meno fino all’estate del 2004, sostituita da Allegra, con la quale, se possibile, le cose andarono addirittura peggio. Ma questa è un’altra storia.
All’epoca viaggiavamo io e Ale viaggiavamo su livelli troppo diversi e, mentre lui assaporava il gusto del successo, io, in fondo, ero solamente un ex tossico fuori da tutti i giri che la sera faceva semplicemente il barista
Tornando ad Ale Cash, con cui sto condividendo ora una birra dagli amici del Bar Bah in Isola, in realtà ci sono stati periodi in cui non l’ho veramente capito e, se cercate in rete, c’è una bellissima intervista che gli feci dagli studi di Poliradio per raccontare l’ascesa della sua agenzia di comunicazione, Mad Agency, diventata in breve tempo una delle più importanti di Milano, che testimonia un mio tentativo di riavvicinamento. Tentativo tra l’altro che fallì miseramente forse perché all’epoca viaggiavamo su livelli troppo diversi e, mentre lui assaporava il gusto del successo, io, in fondo, ero solamente un ex tossico fuori da tutti i giri che la sera faceva semplicemente il barista.
Una volta Pulcino (un tizio che a Milano conoscono praticamente tutti, che nella vita ha lavorato in posti come il Magenta, il Jamaica e il Patuscino, prima di diventare uno dei proprietari della Belle Aurore ai tempi d’oro) mi ha detto: «Quando decisi di lasciare il liceo classico e mettermi a fare il barista ricordo che mia madre si vergognava» e probabilmente fu quello il motivo per il quale con Ale non funzionò. Nella mia testa malata sognavo la possibilità di creare una Factory, tipo quella di Andy Warhol, con Ale Cash in cabina di regia, io designato a occuparmi dei testi, il drugo Fede ai video e DFA dietro la macchina fortografica. Il meglio dei PMB riuniti assieme, come un collettivo di supereroi ognuno con i propri superpoteri. Un’idea nella mia testa che solo Ale poteva realizzare e che puntualmente non si realizzò. E anche se all’epoca non lo capivo oggi posso dire che aveva ragione lui. Non credo di averglielo mai detto. Da quell’intervista sono passati all’incirca 10 anni e a riguardarci oggi siamo entrambi due persone molto diverse. Oggi posso anche dire che, se tra i miei amici sono molti quelli per cui provo affetto, pochi invece sono quelli che stimo. Ale Cash è sicuramente uno di questi. «È il momento di fare la cosa giusta», mi ha detto una sera fuori dalla Belle Aurore, «lo ripeto a tutti ultimamente e penso sia arrivato il momento di fare la cosa giusta anche per me. Sono stanco di essere Ale Cash, un personaggio che mi ha stancato, una maschera che sono costretto a portare da anni come quella di Batman. D’ora in poi mi impegnerò solennemente per tornare a essere semplicemente Alessandro». Ed è con Alessandro, che somiglia sempre di più a Rick Rubin, che ha venduto la Jaguar, che ha due figli, che tiene i Rolex nel cassetto e al quale si illuminano gli occhi quando parla della sua collezione di sneaker come il 14enne che ho conosciuto tra le aule e i corridoi del bigio liceo scientifico Alessandro Volta, che voglio stare questa sera, a festeggiare il 19esimo scudetto del Milan.
Sinceramente non credo ci sia nulla di male ad essere figli di papà ma non sopporto letteralmente che questa cosa venga considerato un valore o un modello da prendere ad esempio. Cioè mi sembra davvero troppo, come se alla fine valesse sempre tutto. E in definitiva non può valere sempre tutto, e che cazzo!
«Mi è piaciuto molto il tuo articolo su Gianluca Vacchi sulla roba del documentario di Amazon», gli dico sorridendo. «Son contento bro, perché sinceramente non credo ci sia nulla di male ad essere figli di papà ma non sopporto letteralmente che questa cosa venga considerato un valore o un modello da prendere ad esempio. Cioè mi sembra davvero troppo, come se alla fine valesse sempre tutto. E in definitiva non può valere sempre tutto, e che cazzo!». «Hai ragione, ne beviamo un’altra?». «Beviamone un’altra, bro».