Tag Tales

Bob avendo i contatti nei porti di mezzo mondo è riuscito a trovarmi una barca a vela da dove trasmettere qui a Sanremo, durante l’intricatissima settimana del Festival. Tempo della trasmissione e torno con la testa all'estate del 2004. Il racconto della settimana.

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Venerdì. Indeciso se collegarmi subito a Pornhub o controllare sul sito di Serendeepity la disponibilità di alcuni vinili che ho ordinato via mail l’altro giorno, apro il mio MacBook Pro seduto comodamente sui divanetti della dinette, completamente nudo, indossando solo il mio anello da cazzo. Dinette è un termine molto diffuso tra chi va in barca a vela e indica lo spazio sotto coperta, dove di fatto c’è la cucina e quello che i profani definirebbero un piccolo salottino. Non tutti forse sanno che è un termine preso in prestito dai camperisti, a dire il vero. La marineria, al contrario, chiama la stessa zona quadrato. Stiamo parlando di un luogo comune, dove ci si ritrova a cucinare e mangiare assieme, soprattutto d’inverno o quando piove a catinelle o fuori volano elefanti. Sinceramente oggi tutto ciò non mi riguarda, un po’ perché fuori ci sono quasi 20 gradi nonostante sia il 3 febbraio, un po’ perché fortunatamente sono in barca da solo e soprattutto perché masturbarmi prima di una diretta è una delle cose che più mi rilassano in assoluto e quindi, nonostante ne sarei perfettamente capace, uscire e menarmelo bellamente in pozzetto, detto tra noi, non è che mi pare proprio il caso. Anche solo per rispetto nei confronti di Bob, il fidanzato di Cleopatra, la sorella di Ofelia, che avendo i contatti nei porti di mezzo mondo è riuscito a trovarmi una barca a vela dove stare e da dove trasmettere qui a Sanremo, durante l’intricatissima settimana del Festival.

 

Sanremo 2022, cambia la classifica dopo il televoto: Mahmood e Blanco al primo posto. I due superano Elisa, che scivola seconda. Morandi terzo
Mahmood e Blanco (Getty)

Ho quindi trovato alloggio in un First Beneteau 45 che si chiama Voltapagina, dal quale andrò in onda come inviato della radio fino a domenica mattina. Le vicende del festival non mi hanno mai appassionato, se escludo naturalmente l’edizione del 1988 quando, da cucciolo, cantavo Vasco di Jovanotti a squarciagola davanti alla tv nella gigantesca sala del principesco appartamento di Via Amedeo d’Aosta, con il cappellino rovesciato e le Adidas alte da basket, dalle quali non volevo mai separarmi. Fatto sta che il direttore della radio quest’anno ha deciso senza alcun motivo di affidarmi questo ingrato compito e così eccomi qui, con il pisello in mano, a un’ora scarsa dall’inizio della trasmissione. Così alzo al massimo il volume dello stereo della barca dove ho collegato l’iPhone tramite una porta usb e messo in diffusione l’ultimo disco di Lorenzo Senni e inizio a segarmi in compagnia di un video amatoriale di due ragazzi siciliani, diventati di recente i Fred e Ginger del Porno, che rispondono al nome di Danika e Steve Mori.

Chiuderei il discorso paragonando la loro Brividi a un vecchio brano di Guè Pequeno, cantato in coppia con Marracash, intitolato Brivido

Sbrigo la pratica abbastanza velocemente e mi attacco al telefono con Milano per saggiare il collegamento e controllare la disponibilità di Mahmood e Blanco, con cui ho passato la sera ieri, seduti al bar dell’Hotel de Paris a bere gin & tonic, di cui in questi giorni stanno parlando tutti. Mahmood e Blanco secondo il giovane scrittore Jonathan Bazzi (che ha scritto su Domani un bellissimo articolo su di loro che ho letto prima mentre cagavo), «comunque vada hanno già vinto Sanremo perché, oltre a essere inverosimilmente talentuosi, i due sul palco dell’Ariston, ieri sera hanno fatto accadere il futuro». E io in definitiva sono abbastanza d’accordo con lui, nonostante alcuni amici con cui ho avuto il piacere di avere uno scambio ieri sera hanno definito il pezzo una «frociata incredibile», perché credo veramente possa venire fuori in onda una bella chiacchiera prendendo come termini di paragone riferimenti come Pier Vittorio Tondelli o l’Andrea Aicman di Chiamami col tuo nome, straordinario romanzo reso celebre in Italia dal film di Guadagnino. E passando ovviamente, nel frattempo, una selezione di pezzi assoluti di Venerus, di Mace o altri dall’ultimo di Sick Luke, e infine, chiudendo il discorso, paragonando la loro Brividi a un vecchio brano, tratto dal disco Bravo ragazzo, di Guè Pequeno, cantato in coppia con Marracash, intitolato Brivido. Roba da deejay insomma, perché io tra le altre cose, per chi non lo sapesse, faccio il disc-jockey alla radio, come tra l’altro sta scritto sulla mia carta d’identità.

Sabato. Dato che ho fatto il mio dovere e la trasmissione di ieri è stata a dir poco straordinaria decido di togliermi dal cazzo rapidamente e prendere il primo treno per Milano, perché Sanremo mi ha già nauseato. Così ora, cioè intorno alle 11 del mattino di sabato, eccomi qui in stazione con il Foglio edizione week-end sottobraccio e le AirPods cacciate nelle orecchie che suonano un ragguardevolissimo live di Archie Shepp, registrato a Parigi nel 1974. Durante tutto il viaggio mi messaggio con Ofelia, leggo il mio articolo pubblicato in terza pagina su un’antologia di racconti di H. P. Lovecraft e penso che mi piacerebbe scrivere un racconto su una storia d’amore andata a finire male. Chissà perché invece di pensare a Lucilla o a Allegra penso immediatamente a Giulia, all’Inavvicinabile. E all’estate del 2004.

 

Mi piacerebbe scrivere un racconto su una storia d’amore andata a finire male. Chissà perché invece di pensare a Lucilla o a Allegra penso immediatamente a Giulia, all’Inavvicinabile

Un flashback del luglio 2004.  Guardo Geraldine seduta davanti a me ai tavolini de La Belle Aurore. Capelli biondo-castani sotto le spalle camicia senza maniche a disegni floreali, le unghie laccate di smalto Candy rosso semaforo. Si accorge dell’effetto che mi fanno. «Lo so, sono bruttissime», sospira, accendendo una sigaretta. Dopo una birra weiss e una coca-cola ordiniamo zuppa di granchio e mais e calamari alla griglia e cominciamo a rilassarci, con la breve interruzione di una serie di giganteschi sbadigli e dello sguardo spento che ho quando mi sono svegliato da poco e la sera prima mi sono fatto come una scimmia. Ordino un’altra birra weiss e per un momento penso: «Che cazzo ci faccio qui?». Geraldine appoggia la testa sullo schienale della sedia, finisce la zuppa e lecca pensierosa il cucchiaio. La rivedo, mentre mi perdo nei suoi occhi, da sbarbina fiordilatte: che mi bacia sul collo, io che le tengo le mani, le nostre lunghe passeggiate da innamorati, il suo camminarmi di fianco, le sue spalle liscissime. Ai tempi, quando aveva ancora senso ricordarsi i nomi delle ragazze, ero cotto di lei. Animale a sangue caldo di Piazza Adigrat e 17enne dall’ego ancora intatto, non spappolato, tipo l’Ermanno Claypool di brizziana memoria, andavo in giro, in compagnia del mio ego ancora intatto, con le poesie di Arthur Rimbaud infilate nella tasca del Barbour, atteggiandomi a superstar della droga. Geraldine mi agita una mano sotto il naso: «Pronto? Andre?». «Ah sì», dico, sbattendo le palpebre. «Puoi ripetere la domanda?».

Ai tempi, quando aveva ancora senso ricordarsi i nomi delle ragazze, ero cotto di lei. Animale a sangue caldo di Piazza Adigrat e 17enne dall’ego ancora intatto, non spappolato, tipo l’Ermanno Claypool di brizziana memoria

Così parliamo dei suoi ultimi esami alla facoltà di architettura, delle sue vacanze tra Formentera e Sestri Levante, del suo nuovo ragazzo, di qualche serata in discoteca alla quale qualcuno le ha detto di avermi visto, anche se in realtà non ci sono mai stato. «E tuo padre?», mi chiede, fingendosi interessata. «Non era tornato in Italia, in questo periodo?». «Non parlo di mio padre, lo sai», rispondo seccato. «Oddio, non fa niente».
Si accende l’ennesima Marlboro light ed il telefonino squilla dalla sua borsetta. Mi alzo vado verso il bagno. Lo scorso settembre io e Geraldine abbiamo dormito insieme a casa mia dopo una serata a Reggio a Les Folies de Pigalle per ragioni che non abbiamo mai veramente capito, anche se in retrospettiva credo avessero a che fare con un tentativo di riesumare il nostro rapporto. Lei stava a letto in reggiseno e mutandine, la luce del televisore che inondava la stanza buia, i Portishead che ronzavano nello stereo e il vezzeggiativo che aveva inventato per me era “zombino mio”. Geraldine stava sempre morendo di sete e io ero così fatto di ecstasy che fumavo una canna dopo l’altra per provare a calmarmi almeno un poco. Torno a sedermi di fronte a lei, che nel frattempo ha ordinato due caffè, e di colpo le dico: «Poi io in questo periodo sono innamorato!». Geraldine poggia la tazzina e mi guarda allucinata. «Lo sai che è la prima volta che mi parli di una ragazza?!». «Lo so».

Il racconto di Tag43 ispirato alle motivazioni della condanna al boss che minacciò Saviano
Una panoramica di Cernobbio (Getty Images).

Mio padre ha mandato una macchina “per assicurare la mia presenza” a pranzo, quindi adesso sono sul sedile  anteriore dell’Audi presidenziale del cugino dal sangue blu e cerco di raggiungere DFA col mio cellulare mentre il cousin supera il casello dell’autostrada diretto a Cernobbio. Penso all’Inavvicinabile, costantemente. Arrivati davanti a Villa d’Este, luogo deputato da anni per le riunioni di famiglia, mio cugino fa un cenno al portiere che apre l’enorme cancello che dà l’accesso allo sterminato parco, a picco sul lago, e ci fa entrare. Oltrepassando quella che non può essere che la mercedes grigia presidenziale dello zio Nando parcheggiata, lancio il filtro ingiallito dall’olio di THC del joint consumato durante il viaggio. Dentro tutto è maestoso e imponente, seguo il cousin verso il Bar Canova dell’albergo e subito riconosco prima mio fratello al bancone, con fidanzata al seguito, e mio cugino Gian Mario. Poi la piccola Beatrice, sua madre Sabrina e lo zio Nando, aka il conte Ferdinando Serbelloni di San Gabrio Castelli di Villanova. Papà è l’hombre con pochi capelli, dall’aria seria, con indosso il vestito blu di Caraceni, seduto al tavolo da solo, intento a prendere appunti sul solito taccuino giallo da avvocato. Sua sorella e la sua ex moglie occupano il tavolino davanti a lui. Papà dovrebbe sembrare un uomo sulla settantina abbondante, ex pescecane dell’alta finanza Anni 80 vive, in questo periodo, una stagione molto simile a quella di Napoleone ai tempi dell’Isola di Sant’Elena. Da lontano ha comunque un’aria vagamente figa. Io dal canto mio sono qui essenzialmente per scroccare un pranzo e per una richiesta di denaro. Non ci vediamo da più di due anni. «Scusa papà mi sono perso, al bar». «Sei magro».
«Sono tutte quelle droghe, papà», sospiro, sedendomi. «Non sei spiritoso, Andrea», dice lui, in modo seccato. «Papà, non prendo nessuna droga, e poi cerchiamo di non far diventare questa conversazione come fosse tratta da un libro di Bret Easton Ellis». «Chi?». «Lascia perdere, sono in ottima forma e non prendo nessuna droga». «No, sul serio, come stai?». «Sono un’autentica rockstar, non posso lamentarmi». «Sarebbe a dire?». Fisso davanti a me. Papà mi fissa a sua volta, malinconico.

«Ti arriverà un assegno in meno di 10 giorni». «È già stato speso». «Come fa ad essere stato speso se non è ancora arrivato?». «Questa è una bella domanda»

«Sai, sono molto preoccupato», picchietta minacciosamente le dita sul taccuino giallo da avvocato e poi prosegue: «Ogni qual volta penso al mio figlio più piccolo i miei pensieri tornano ala conversazione che abbiamo avuto al telefono l’estate scorsa a proposito di un tuo impegno negli studi». «Oh merda papà», mugolo. «Sto frequentando Lettere, lavoro al bar, faccio le serate in discoteca, pago l’affitto e non so cos’altro ancora. È tutto ok. Ho solo bisogno di un po’ di soldi». «Non provarci, Andrea, hai il tuo fondo fiduciario, ed è più che sufficiente». «Ehi, Milano è cara». «Trasferisciti altrove». «Oddio, sii serio, papà ascoltami, sono al verde». «Ti arriverà un assegno in meno di 10 giorni». «È già stato speso». «Come fa ad essere stato speso se non è ancora arrivato?». «Questa è una bella domanda». «L’assegno mensile è tutto quello di cui disponi», ribadisce papà. Poi la zia si ferma al nostro tavolo e dice che è ora di spostarci nella veranda ristorante. «E Lucilla come sta?», chiede lui. «Penso bene papà, vive in Spagna da più di un anno, e poi in questo periodo sono innamorato fradicio di un’altra persona».

Sanremo per la diretta radio e poi i ricordi dell'estate 2004
La Statale di Milano.

 

Mi sveglio perché il sole brilla dal lucernario e investe tutta la camera da letto. Mi metto faticosamente a sedere, pronto al peggio, oggi esame di estetica secondo atto, ma fortunatamente sembra che abbia smaltito dormendo lo stravolgimento della sera prima. Controllo la situazione: pare che mia cugina Laura sia già uscita. Un mazzo di chiavi, sopra ad un bigliettino sul tavolo in salotto di fianco ad una copia di Vanity Fair con in copertina “Le Berluschine” fotografate nel parco della villa La Certosa, in Sardegna, confermano la mia intuizione. In casa c’è solo il piccolo Yorkshire, di nome Yorky, che fissa il mio sguardo vitreo del good morning. Nella stanza non ci sono orologi, quindi non ho idea di che ora sia, ma a giudicare quanto è alto il sole nel cielo, sembra mattina presto. Chiamo mio padre per sapere se è per caso ancora a casa mia o è già in aeroporto, ma ha il telefono staccato e provo un guizzo d’angoscia che cerco di controllare e che tento immediatamente di lavare via nella doccia rivestita di piastrelle verde smeraldo. Poi mi raso completamente il volto, piego diligentemente una camicia azzurra Brooks Brothers nello zaino e mi infilo una t-shirt della curva del Milan con sopra Diego Abatantuono che indossavo la notte di Manchester durante la notte della finale dell’ultima Coppa dei Campioni. Mi lascio andare la porta alle spalle, consegno le chiavi alla portinaia sudamericana, esco in strada e slego la bici docile pronto per andare in via Festa del Perdono. Oggi radunano gli eserciti. Quando arrivo in entro in università, prendo l’ascensore e schizzo all’ultimo piano verso l’inferno, aula 510, nemmeno uno specchio per specchiarsi. Un biglietto attaccato alla porta mi informa che l’esame si terrà in Crociera Alta, aula dal sapore medievale di sevizie e torture. In Crociera fa un caldo boia, sono tutto sudato e la camicia Brooks Brothers che avevo conservato con tanta cura è già da buttare. Scambio due battute con il mio vicino, così per farmela passare, ma in realtà non passa per un cazzo, mentre dietro di me due ragazze leggono avide i loro appunti, in piena paranoia. Mi volto, poi trattengo il fiato, quasi svengo. Non credo ai mei occhi. Tra le ripassatrici avide e qualche altro studentello riconosco una ragazza che, sorridente, viene verso di me.

Un biglietto attaccato alla porta mi informa che l’esame si terrà in Crociera Alta, aula dal sapore medievale di sevizie e torture

Giulia. «Ciao», la sua voce cinguettante. «Ehi, ma non eri a Parigi?», dico, con voce tremante. «Parto più tardi, volevo salutarti come si deve e farti in bocca al lupo per l’esame. Ti interrogano fra molto?». Così resto inebetito di fronte a lei, stupenda, in magliettina gialla, ballerine e gonna bianca sottile e penso mentre la guardo che nella vita non mi è mai capitato ne mai probabilmente mi capiterà più di sferrare nei confronti di una ragazza un corteggiamento così audace e strepitoso come ho fatto con lei. Poi sono 26/30, telefonate di felicitazioni, joint lascivi e sguardi languidi con lei in bici di fianco a me tra il traffico dell’ora di punta e vorrei fermare il tempo. Quando arrivo alla Stazione Centrale di Milano e scendo dal treno, inebriato dal ricordo di questa storia e sto per mandare un messaggio a Ofelia con l’iPhone in mano, come in un grottesco scherzo del destino vengo urtato da una donna con un’appariscente cappotto viola e un Borsalino a tesa larga color cammello in testa. Sto per fare un urlo quando vedo che tiene mano nella mano una bambina. Allegra.