Alle sue origini, prima che emergessero le figure dei rapper, nell’hip-hop esistevano solo i beat. I produttori venivano visti come esseri solitari, reclusi in scantinati con strani macchinari, attrezzature esoteriche e sommersi da cumuli di vinili. Tra i pionieri che hanno gettato le basi per la nascita dell’intero movimento ad esempio non si può non nominare una leggenda del calibro di Grandmaster Flash, considerato uno dei padri fondatori del genere o altre figure tremendamente influenti come Rick Rubin, DJ Premier, RZA del Wu-Tang Klan o ancora altri autentici esseri mitologici come J Dilla, Dr. Dre o lo stesso Kanye West, ovviamente prima che si bevesse completamente il cervello.
Dico spesso ultimamente che in questo preciso momento della vita che sto attraversando, se mi paragonassi a un rapper, avrei assolutamente bisogno di un producer, ovverosia di una persona che sia in grado di farmi uscire con un nuovo sound radiofonico, dopo anni di vita di coppia con Alb. Come se avessi bisogno di una nuova cifra stilistica, tipo un solista che deve uscire con il proprio disco dopo lo scioglimento della band. Styng di questi ultimi tempi è un po’ come fosse il mio produttore, a metà tra un Rick Rubin appena arrivato dalla California e un Dr. Dre capace di tramutare in oro tutto quello che tocca. Per chi non lo sapesse Styng, autentico king del writing milanese old school e oggi pubblicitario di successo, è uno dei maggiori esperti di Urban Culture in circolazione, un autentico profeta del game. Per chi non fosse in confidenza con il personaggio basta sapere che Styng ha fatto di tutto. E lo ha fatto prima e meglio di tutti.
Si avvicina al mondo del writing e dell’arte urbana nel 1991 e in pochi anni ne entra a far parte a pieno titolo come writer, diventandone uno dei più celebri rappresentanti stilistici, ha collaborato con Nike come produttore esecutivo di quasi 40 campagne pubblicitarie, ha dipinto muri in cinque continenti e oggi si divide tra Milano e LA dove ha di recente aperto una costola della sua nuova agenzia pubblicitaria. «Sai, credo ci sia un ritmo dietro tutto quello che facciamo. Ma è quando sono arrivato ai miei 40 anni che finalmente mi sono sentito in ritmo con l’universo. E capisco che può sembrarti una concetto molto vago o da santone, ma c’è qualcosa riguardo il destino, la fede e l’autodeterminazione. Mi sono affidato alle mie sensazioni quando dovevo fare una scelta importante, come lasciare un lavoro che avrei potuto tranquillamente fare tutta la vita per inseguirne un altro. Ho sempre cercato le sfide e ho cercato cose che in quel preciso momento avessero un ritmo specifico, che risuonasse con il mio. Poi sai, cerco di buttarmi nelle cose con più entusiasmo possibile, ma alla fine ho scoperto di essere in pace con me stesso quando capisco che è ora di cambiare, che c’è un ritmo anche nel lasciare le cose. Ora ho raggiunto una certa serenità nel farlo», mi ha detto una volta in un’intervista che gli feci dai microfoni di Radio Pop.
«Ed è per questo che domani parti per Sanremo». Pausa, poi Styng mi guarda e dice sprezzante: «Cos’è? Ci stai ancora riflettendo?». «Tu sei un autentico genio, brody!»
Fatto sta che ci siamo dati appuntamento per parlare di un progetto e ora siamo uno davanti all’altro in una pizzeria bobo vicino a Viale Piave che ci scoliamo un paio di birre attenendo che il cameriere venga a prendere l’ordinazione. La musica a basso volume è dei Police, voci smorzate di sottofondo e fuori nonostante ci sia il sole fa così freddo che sembra di essere in un igloo. Styng indossa un dolcevita nero, jeans bianchi, un paio di Adidas superstar e un cappellino da baseball a tesa larga con sopra il jumpman di Micheal Jordan. «Tu sei il broker del mio futuro, bro». «Speriamo di guadagnarci qualcosa». «Sono ancora in fase di ricerca, c’è la possibilità di tornare in pista con un progetto nuovo da fare insieme ad Alb che potrebbe rimetterci in gioco e poi ho un paio di idee di cui vorrei parlarti». «Di che si tratta? Non sono contrario al fatto di rimettere insieme la coppia», sussurra Styng, «ma fatelo solo per soldi. Inoltre penso che tu debba lanciarti in un progetto più ampio, una cosa che ti obblighi ad uscire dalla tua comfort zone. La comfort zone è il male! Ricordatelo!». Arrivano le pizze, lo vedo accasciarsi sulla sedia, poi si raddrizza. «Ho qualcosa che potrebbe fare al caso nostro», prosegue, «Adesso ti spiego». «Spara, bro», rispondo, con assoluto interesse. «Un noto brand di streetstyle è pronto a pagare un podcast di interviste realizzato da una nave da crociera ormeggiata di fronte all’Ariston a Sanremo. Devono passare da lì tutti gli artisti di riferimento che fanno parte del mondo urban. Le scelte artistiche di Amadeus quest’anno svecchieranno totalmente il festival e sarà una bomba, non più una cosa fatta per i nostri nonni, sarà un’edizione che seguiranno tutti. Soprattutto i giovani. Ed è per questo che domani parti per Sanremo». Pausa, poi Styng mi guarda e dice sprezzante: «Cos’è? Ci stai ancora riflettendo?». «Tu sei un autentico genio, brody!».

Sono salito sulla nave di Costa Crociere con indosso il mio smoking di Commes des Garçon che avevo settimana scorsa a Venezia e quando l’autista pagato dal noto brand di streetstyle mi ha lasciato di fronte all’entrata ero così stupefatto che i miei pensieri si accavallavano l’un l’altro senza soluzione di continuità, così vaghi che sarebbe difficile classificarli perfino come un montaggio: palloni rossi e bianchi e azzurri e gialli che fluttuano a mezz’aria, file di fotografi che ho preso per paparazzi e invece no, un facchino che mi assicurava che avrei trovato i miei bagagli – vecchie borse militari con sopra scritto a caratteri cubitali in rosso la parola SPACE riempite in fretta e furia – in cabina. Nel mio stato di sovraeccitazione e stordimento mi sono vagamente reso conto che qualcuno si doveva essere occupato delle cose pratiche perché il mio imbarco è stato assolutamente rapido e senza grane. In cabina poi ho aperto una piccola bottiglia omaggio di Perrier-Jouet, l’ho afferrata per il collo e prima di portarla alla bocca ci ho sbriciolato dentro due Xanax prima di lasciarmi cadere su una poltrona superimbottita e pensare: «Sono a bordo!».
Styng aveva ragione perché quest’anno il Festival di Sanremo è stato un successo senza precedenti con fisso il 70 per cento di share e nessuno ha parlato d’altro per tutta la settimana. Un’operazione perfetta, senza sbavature, fatta con il righello, che ogni giorno ha prodotto il giusto equilibrio tra polemiche e contenuti diventati virali in Rete. I vestiti della Ferragni, l’apertura di account social in diretta, Blanco che ha distrutto il palco durante un’esibizione, le donne maltrattate, i carcerati, le accuse di razzismo di una pallavolista nera, il freestyle non concordato di Fedez che ha stracciato la foto di un viceministro vestito da nazista, Mattarella, Benigni, gli accenni alla Costituzione, le proposte di matrimonio dei Coma_Cose, le inutili polemiche di plastica della Lucarelli, gli editoriali in prima pagina su tutti i quotidiani, una serie infinita di rapper, Morandi, Al Bano e Massimo Ranieri, l’esibizione dei Black Eyed Peas, diari TikTok, cosmetici sponsorizzati nelle storie Instagram, i tuffi in piscina di Salmo, la reunion degli Articolo 31 e di Paola & Chiara, le dirette di Fiorello. Venerdì, alla fine di una serie di dirette dove ho intervistato indossando un cappotto arancione oversize di Versace, uno dopo l’altro: Lazza, Madame, Ariete, Elodie, Colapesce & Di Martino, Guè, Tananai, Levante, i Baustelle, Rosa Chemical, ero così esausto che, come in una sorta di trance, ho sognato cose che più tardi non sono riuscito bene a ricordare: c’era sempre Sofia, Linus era un’assistente di bordo, la colonna sonora era in loop tratta dall’ultimo singolo dei Depeche Mode remixato e gli effetti speciali erano fantastici e la produzione aveva assunto come editor Romain Gavras, il regista di Athena, le sequenze di immagini di guerriglia urbana erano così veloci che mi sembrava di stare perennemente dentro a un videoclip o dentro a un videogame, mentre scopavo Carla Bruni che invece di Azzurro, nuda davanti a me, cantava Stress dei Justice e No Church in the Wild di Kanye West e Jay-Z.
Sono seduto sul bordo di un’enorme vasca circolare, a sorseggiare whisky dalla bottiglia. La suite è piena di gente: addetti ai lavori, tipe di passaggio, qualche musicista seminoto, una figura con tacchi vertiginosi, pelliccia e capelli cortissimi di cui non riesco a distinguere la sessualità
La notte prima della finale, dopo la serata cosiddetta dei duetti, Amadeus ha organizzato una festa nella sua suite all’Hotel De Paris, una specie di piazza d’armi all’ultimo piano e, a tarda notte, mi ritrovo in bagno. Sono seduto sul bordo di un’enorme vasca circolare, a sorseggiare whisky dalla bottiglia. La suite è piena di gente: addetti ai lavori, tipe di passaggio, qualche musicista seminoto, una figura con tacchi vertiginosi, pelliccia e capelli cortissimi di cui non riesco a distinguere la sessualità. A qualche metro di distanza il rapper Guè Pequeno, ormai per tutti semplicemente Guè, parla seduto a un tavolino fitto con una ragazza con di fronte una magnum di Dom Perignon mezza vuota. «Scusatemi», dico. Poi torno in bagno. Mi siedo sul cesso, infilo la testa tra le gambe e faccio dei respiri profondi e continui. Sto sudando. Mi sciacquo il viso e tengo i polsi sotto l’acqua fredda per un bel po’ e finalmente comincio a sentirmi meglio, quando mi rendo conto che qualcuno sta bussando alla porta. È la figura che ho visto prima, quella con tacchi vertiginosi, pelliccia e capelli cortissimi di cui non riesco a distinguere la sessualità. La ribattezzo “il ricchione donna bellissima”, e non capisco perché in bagno c’è appeso alla parete un disco d’oro di non so quale artista dance. Improvvisamente appare una bottiglia di vodka con due bicchieri, verso due shot e me li calo giù uno dopo l’altro e “il ricchione donna bellissima” si piega proprio davanti a me per sniffare una riga di coca su un piatto in bilico rimasto appoggiato sul bordo dell’enorme vasca circolare. Le guardo il culo, è quasi perfetto, tende il tessuto luccicante del vestito. Mi domando, cosa avrà sotto, mutandine? Perizoma? Niente? E soprattutto, avrà il cazzo? «Ahh, grazie», dice, rovesciando la testa all’indietro. Sono così fuori di testa che mi viene voglia di saltarle addosso.
Mezz’ora più tardi siamo ancora chiusi a chiave in bagno e lei, o lui, sta cercando di trasformare la gelatina del mio cazzo in una specie di erezione. Ha la tenerezza di una mamma che vuole calmare un bambino inconsolabile. Mentre me lo prende in bocca mi domando quanti anni possa avere. Venti? Venticinque? Poi si gira, si sfila il vestito di seta luccicante e la luce è così forte che finalmente posso vedere bene la boccetta di lozione che si è appena spalmata tra le chiappe. Non riesco a capire se ha le palle, nel dubbio vado avanti e i glutei si allargano quando dal nulla una luce fioca mi acceca e mi sveglio nel mio letto a Milano con Ofelia che dorme di fianco a me. Sono in preda a una crisi respiratoria. Corro verso il bagno cercando dell’acqua, mi fermo in cucina e mi attacco a una bottiglia di Panna in vetro. Alla terza sorsata mi rendo conto di non essere mai stato a Sanremo e che l’appuntamento con Styng è solo fra qualche ora. Faccio un respiro di sollievo, mi sfilo il pigiama completamente fradicio di sudore e torno a letto sperando di ricominciare a sognare, perché che cazzo, in fondo, Sanremo è Sanremo!
* Storie e personaggi sono frutto di fantasia.