Blanco non sente bene dalle cuffie e distrugge il palco, prendendo a calci vasi pieni di rose, i fiori simboli di Sanremo. Fossimo tra quanti inseguono le notizie partiremmo da qui. Ma in fondo, dopo il monologo di cartone di Chiara Ferragni chi di noi non avrebbe voluto prendere a calci qualcosa? No, dai, proviamo la via dell’originalità, almeno noi. Non uniformiamoci.

Il Sanremo della vera ripartenza
È partito Sanremo, il primo della vera ripartenza. Quello senza restrizione Covid, senza i cantanti costretti a vivere per una intera settimana, anche di più, dentro una bolla, la paura di vedersi lo spettacolo in camera d’albergo causa positività di un solo membro del proprio staff, e quindi di ristoranti vuoti, di feste saltate a data da destinarsi. Il primo, per contro, che se la dovrà vedere anche con gli altri, intesi come una blanda concorrenza delle altri reti generaliste, leggi alla voce Mediaset, i live che nel mentre sono ripresi a pieno regime, quindi non sarà certo più solo Sanremo a essere fondamentale per le carriere degli artisti. Il primo, infine, che vede il regolamento cambiato a piacimento del direttore artistico, 28 concorrenti in gara invece di 22, sei giovani giunti da Sanremo Giovani, cinque artisti a contendersi il podio della finalissima, vedi tu cosa significa portare a casa numeri pazzeschi come quelli che in effetti Amadeus ha portato fin qui. Certo, poi ci sarebbe quella faccenda della canzoni, quelle che un tempo si diceva dovessero ambire a essere fischiettate sotto la doccia già dalla domenica dopo la finale, oggi c’è Spotify a dirci come vanno realmente le cose, alla faccia delle docce e del fischiettare.

Il trionfo del vintage
È quindi partito Sanremo, e come è partito? Nel modo più classico del mondo. Prima con Amadeus e Gianni Morandi, co-conduttore, che entrano facendo la corsetta già mostrata negli spot – qualcosa di scemo come poche volte ci è capitato di vedere, ma noi siamo gente sofisticata, signora mia – salvo poi fermare tutto per fare un minuto di silenzio per le vittime del sisma in Turchia. Poi sentire Gianni intonare l’inno di Mameli al cospetto del presidente Mattarella, presente nel palchetto d’onore, e poi finire invischiati dentro una sbrodolata di Benigni tra alto e basso, roba che è talmente vintage da farci ordinare al ristorante un piatto di pennette alla vodka. Retorica, quindi, e cattivo gusto, una sorta di grande classico sanremese, come è un grande classico il fatto che la musica, torno a ripeterlo, sia un puro contorno. Il fatto che a dirlo sia un critico musicale potrebbe dar adito a perplessità, o forse far ritornare alla memoria proprio lo sbrocco di Ultimo raccontato su queste pagine ieri, perché i critici è vero che vivono una settimana di luce riflessa che altrimenti non potrebbero vivere, lì a fare interviste per tutti i programmi possibili, addirittura a decidere chi vincerà e chi no – il voto della Sala Stampa pesa per il 33 per cento – salvo poi star lì a fare pagelle manco fossimo a scuola, tutta la credibilità, la poca credibilità, conquistata a suon di recensioni, interviste, analisi del mercato, lì a volatilizzarsi in un soffio tra un 3 dato con severità o un 7 dato con troppa bonomia, ma tant’è, far finta che le cose vadano diversamente sarebbe mentire sapendo di mentire.

Blanco? Più scandalo che polemica
E poi? Poi Sanremo è anche e soprattutto tutto il resto, tutto il resto che, per una settimana, diventa il piatto forte del Festival. Quindi gli outfit, le polemiche, quest’anno a appannaggio di Rosa Chemical, attaccato da Fratelli d’Italia per il suo essersi detto a favore del poliamore e del porno, complice Only Fans, ma anche del già citato Blanco, che nella prima serata sbrocca e distrugge i fiori sul palco, a causa di un problema tecnico, a riprova che si può essere carini e di successo ma se uno è un cretino rimane un cretino di successo e carino, il pubblico a fischiarlo sonoramente. Gli scandali, direi pochini, anche se forse Blanco è più scandalo che polemica, e i tanti programmi collaterali, gli approfondimenti che approfondimenti poi non sono mai, l’introspezione che trapela dalle canzoni trattata con la superficialità che le canzonette parrebbero meritare, ma che siamo decisamente noi a non meritarci.

La diva Oxa promette e non mantiene, Coma_Cose preziosi e Elodie già hit
La gara, perché anche se non sembra Sanremo è una gara canora, certo prestata alla televisione e con un nome fuorviante, niente Festival, è cominciata con Anna Oxa, che sulla carta sarebbe dovuto equivalere a una botta di divismo che più divismo non si può, la sola a non fare promozione, red capert e affini, ma che nei fatti è lì a cantare una canzone che, per dirla con Ambra, “promette, ma non mantiene”, per poi proseguire con gIANMARIA, maestro di corsivo, con un pezzo che piacerà agli zoomer, ma a quelli proprio zoomer, un ritornello up su una ballad altrimenti anche classica. Poi Mr Rain a cantare di depressione con un coro di bambini; Mengoni che mette una ottima canzone sopra la vittoria finale, Ariete che canta una canzone che sa di Calcutta e allarga il suo pubblico a un giro decisamente più mainstream, Ultimo che fa a pugni con una canzone che non ha ritornello ma fa del crescendo la sua forza, i Coma_Cose che portano un brano sulla monogamia e le difficoltà che vedersi come una coppia presenta una vera gemma preziosa. E poi Elodie che sforna una hit di quelle che ti si incollano al cervello, «le cose sono due, lacrime mie o lacrime tue», uno slogan degno di finire nel gergo comune. Leo Gassmann che prova a togliersi finalmente di dosso un cognome pesante con una canzone che porta a sua volta un cognome importante, quello di Riccardo Zanotti dei Pinguini Tattici Nucleari, riuscendo nell’impresa; i Cugini di Campagna a esordire alle soglie dei 70 all’Ariston, rinunciando al falsetto e sposando La Rappresentante di Lista come autori. Grignani porta Grignani al 100 per cento, in una canzone difficile su molti aspetti, ma Grignani, si sa, è fatto così, non gli piace mai andare sul facile; Olly a giocare con un suono che suona punk come può suonare punk un giovane della Gen Z, guardando ai Sum 41 più che ai Sex Pistols. Mara Sattei che porta un po’ di pop meno urban del solito, più Damiano David dei Maneskin che il fratello Thasup, tanto per parlare degli autori del brano. Lei con bella voce e bella presenza.

L’omaggio dei Pooh al loro, e al nostro, Stefano D’Orazio
Ospiti d’eccezione, oltre a Mahmood e Blanco, vincitori della scorsa edizione, dipinti da Amadeus come parte della storia della nostra musica, i Pooh (con anche Riccardo Fogli), a rendere omaggio al loro Stefano D’Orazio, al nostro Stefano D’Orazio, momento questo sì da incorniciare. In piazza invece Piero Pelù, titolare della battuta migliore della serata, quando ha detto a Amadeus: «Noi siamo la prova che la biodiversità nel mondo può esistere». Biodiversità che, dovessi trovare il mio Amadeus, Amadeus escluso, sarebbe la Ferragni, che ha fatto un monologo di una stucchevolezza da lasciare quasi basiti, indossando un abito Schiaparelli che la disegnava nuda, perché va bene essere impegnate, ma visto mai che non lo si faccia a beneficio di camera con un brand bello chiaro da pubblicizzare. Anche questo è Sanremo, uno spettacolo lunghissimo, e uso la parola spettacolo per quel senso di generosità che l’idea di ripartenza porta con sé, con intermezzi di 20 minuti almeno tra una canzone e l’altra, ma in fondo, che Sanremo sarebbe se non ci offrisse anche modo di lamentarcene? Sanremo, di tutto e di più, come nello spot di mamma Rai.
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