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Canta che ci passa

Sanremo 2023, perché Vivo di Levante è una rivoluzione

In un panorama musicale dove si insegue l’adolescenza a tutti i costi, dove la mezza età scompare (salvo rare e felici eccezioni) e dove il corpo della donna è roba da trapper, parlare di sesso dopo la maternità senza pudori o ammiccamenti è rivoluzionario. Per questo viva Vivo.

29 Gennaio 2023 09:26 Michele Monina
Sanremo 2023, perché Vivo di Levante è una rivoluzione

Mancano pochi giorni all’inizio del circo sanremese, prendete questo termine, “circo”, come meglio volete – come qualcosa di familiare, che vi riporta bei ricordi di quando eravate bambini, o qualcosa di aberrante, gli animali maltrattati e così via… entrambe le versioni troverebbero ampia soddisfazione in quel contesto – e voglio dire una cosa che ritengo importante a riguardo oggi, prima che il caos prenda il posto dell’attenzione, la massa di input si sostituisca alla possibilità reale di essere letti o ascoltati: Vivo di Levante ha il testo più importante tra i 28 brani in gara.

La differenza tra canzoni e canzoni-canzoni

Premessa, in sede di conferenza stampa post preascolti dei brani nello spazio Rai di via Mecenate 76, a Milano, un Amadeus particolarmente arzillo (aveva passato le due ore precedenti, quelle appunto degli ascolti, ballando e canticchiando in finto playback mentre il suo fido dj Massimo Alberti premeva di volta in volta Play sul pc per lanciare i brani) ha dichiarato che, parola più parola meno, quest’anno è un Sanremo di «canzoni canzoni». Detta così, lo so, sembra una ovvietà, e visto che a dirla non è Umberto Eco, potrebbe anche esserla. Quel che voleva dire, dopo l’ha goffamente spiegato, è che quest’anno le canzoni sono tutte, o se non tutte quasi tutte, rivolte all’intimo, all’introspezione, andando quindi a tirare una riga metaforica tra chi fa “canzoni canzoni”, guardandosi dentro, e chi invece fa semplicemente canzoni che guardano altrove. Credo, lungi da me il voler fare l’interprete dell’Amadeus-pensiero, che il nostro intendesse sottolineare come tutti o quasi i 28 artisti in gara abbiano voluto, dopo il periodo difficile che abbiamo vissuto, la pandemia, e quello che stiamo ancora vivendo, la guerra in Ucraina, optare per un po’ di riflessione intima, andando a parlare di esistenzialismo, amore, anche disagio mentale. Ascoltando velocemente, questa è la prassi, i brani che andranno in gara di qui a qualche giorno questa è in effetti l’impressione, seppur in alcuni casi siano servite le gentili parole degli uffici stampa per cogliere quello sguardo, ben nascosto dietro mani di superficialità.

Sanremo 2023, perché Vivo di Levante è una rivoluzione
Levante (da Instagram).

La scoperta del corpo dopo la gravidanza

In questo panorama sartriano, direbbe Amadeus, il brano di Levante rischia di venire soffocato, non perché la canzone non sia all’altezza della situazione, tutt’altro – è un electropop raffinato, con un ritornello efficace – quanto piuttosto perché la massa, 28 brani, rischia di tenere molti dei rari picchi presenti sottotraccia. Mi spiego, Vivo, questo il titolo del brano scelto da Levante, è una canzone che, nella migliore tradizione del cantautorato, parte dall’autobiografia dell’artista, credo di poter dire, andando a gettare sul panno verde della kermesse un tema assolutamente inedito per la nostra canzone, e a memoria per la canzone in generale: il ritorno alla scoperta del proprio corpo, o forse si dovrebbe dire il ripristino del sistema del proprio corpo, per usare una terminologia più confacente a questi anni digitali, e di conseguenza alla sfera sessuale, dopo la nascita di un figlio. Uso un generico “un figlio”, ben sapendo che Levante ha avuto da poco una figlia, perché, credo, le canzoni siano questo, qualcosa che parte dall’intimo, una sorta di pagina di memoir, per poi diventare assoluto, corale, di tutti.

Inseguire l’adolescenza a tutti i costi

Tocca fare un altro passo indietro. Un tema che mi è molto caro, e che ho più e più volte affrontato, come critico musicale, è quello dell’assenza, o quasi totale assenza, nella nostra canzone, della volontà di rappresentare tutte le fasi della vita. Preso atto che oggi il mercato discografico è stato consegnato, chiavi in mano, agli adolescenti, lo streaming a occupare il 95 per cento del mercato, sembra quasi che tutti coloro che in teoria sono cresciuti con noi, maturati al nostro fianco negli anni, abbiano deciso di smettere di raccontarsi, e quindi di raccontarci, inseguendo pericolosamente coloro che sono arrivati dopo. Quindi se da una parte la musica ha provato a mimetizzarsi coi suoni del momento, e questo potrebbe pure starci – è sempre successo, in fondo – anche i testi hanno seguito la medesima china, andando a impoverire il vocabolario, divenuto composto di qualche decina di parole, poco più, e di conseguenza, sempre, andando a impoverire la possibilità di affrontare argomenti complessi. In realtà, temo, manca proprio la forza, fisica e mentale, di affrontare un tema come il maturare, più facile fingersi eterni adolescenti, rifuggire argomenti scomodi, spigolosi, anche difficili da liberare da antichi pudori. Attenzione, non parlo di adolescenza come la si potrebbe intendere quando si pensa a certe canzoni eterne come quelle di Max Pezzali, sia chiaro. Quella è una specifica poetica che in quel pozzo di meraviglia verso la vita che ci attende va ad affondare lo sguardo, con incanto e anche, nel tempo, malinconia. Intendo proprio qualcosa che sia assolutamente immaturo, parlare come se si volesse essere compresi dai più giovani, finendo per dire “noi matusa” coi compagni di classe dei nostri figli, roba da diventare meme nel giro di pochi secondi.

Dai testi è scomparsa la mezza età e il corpo della donna finisce per essere oggetto sessuale

Fatte debite eccezioni, penso ovviamente con rimpianto a Ivano Fossati, che fino al giorno del suo ritiro ha sempre messo in scena la sua età anagrafica nelle canzoni, e chi di quella scuola si può dire allievo, anche solo spiritualmente – penso a Niccolò Fabi, a Daniele Silvestri, a Samuele Bersani e pochi altri – la musica è apparsa, negli ultimi anni, come un eterno girare intorno al tema dell’amore, il sentimento, quel sentimento, figurati se si parla di rabbia, odio, rancore, elevato a unico tema possibile, in barba al corpo, anzi, contrapposto al corpo. Non ci sono quindi più donne e uomini di mezza età, non ci sono più anziani, ci sono anche pochissimi corpi di donne, quei pochi che vengono raccontati di solito finiscono per essere oggetti sessuali nei testi senza censure dei trapper, “troie, puttane, bitch”, come a voler dare seguito a quell’orribile idea del “pezzo di figa” con cui in troppi parlano di belle donne.

Con Andare oltre Niccolò Fabi parla di amore agli adulti da adulto
Niccolò Fabi (da Fb).

Da Avrai a Futura, la nascita di un figlio in musica

Negli anni si sono sentite bellissime canzoni dedicate alla nascita di un figlio. Credo che tutti gli artisti che ne hanno avuti ne abbiano poi cantato, da Avrai di Baglioni a Sarà un uomo di Carboni, da Benvenuto di Vasco Rossi a A modo tuo di Ligabue, via via fino a Fedez, J Ax e tutti gli altri, anche i nuovi. Hanno cantato l’arrivo di un figlio anche artisti che figli non ne hanno avuti, penso alla Futura di Dalla, ma nessuno, a memoria, si è premurato di raccontarci come si sente poi il genitore, non nei confronti del figlio, ma di se stesso. Nessuno, in genere, tende a raccontare come cambiano i rapporti di coppia, con l’arrivo di un figlio, figuriamoci se qualcuno prova a raccontarci il sesso dopo l’arrivo di un figlio. Nessuno, del resto, racconta come cambiano anche i sentimenti, quando un rapporto va avanti, più semplice. Lo diceva bene Fabi in quell’anomalia che la sua Costruire, raccontare un inizio e ancor più una fine. Del resto, la canzone che per anni è stata identificata come un manifesto della femminilità matura, oggi messa al bando per quella faccenda della cancel culture e del catcalling, è Quello che le donne non dicono, scritta da un uomo 31enne per una donna 32enne che oggi si fa scrivere canzoni da Ultimo, che di anni ne ha 26, lei oltre i 60. Perché non ci sono canzoni che cantano la menopausa, mi chiedo. O l’andropausa. Perché non ci sono brani che raccontano le rughe, e come ci si sente quando ci si accorge delle nostre o di chi ci vive accanto? Perché non si parla mai della routine della quotidianità? Perché, mi sono chiesto, e l’ho anche chiesto pubblicamente, nessuno racconta come un corpo di donna cambia dopo la maternità? Intendiamoci, il discorso vale anche per gli uomini, anche se oggettivamente parlare di disfunzioni erettili o di prostatiti potrebbe risultare più comico, forse proprio perché è dietro la comicità che si tende a tenere nascoste certe comuni problematiche. Del resto troverei molto più accattivante il racconto dell’ultima volta in cui una coppia, anziana, fa l’amore, che la prima, cantata in non so più neanche quante canzoni (L’ultima donna è un brano dei Decibel, band capeggiata da Enrico Ruggeri, che alla propria reunion ha deciso proprio di affrontare questo tema).

Il parto e fare i conti con il proprio corpo che diventa altro

Tornando però al corpo della donna e al parto, certo, ci sono artiste, penso a Adele o a Alanis Morissette, che hanno cantato la depressione post-partum. Bene, anzi, benissimo. Perché hanno provato, a fatica, ovviamente, abbattendo il proprio pudore, a raccontare qualcosa che potesse in qualche modo finire per fornire le parole a chi vive una simile condizione. L’arte ha anche questa funzione, in fondo, ci dice cose che ci riguardano ma che non sappiamo dire. Ma il sesso dopo una maternità è altra faccenda, come lo è il fare i conti col proprio corpo che nel mentre è diventato altro, momentaneamente, durante la gestazione e nei giorni successivi al parto, e forse per sempre. Levante, come già le era successo altre volte in passato, anche a Sanremo con la sua Tikibombom, brano che a dispetto di un titolo volutamente effimero e volatile affrontava di petto la discriminazione cui spesso sono sottoposti coloro che vengono considerati diversi, che poi sarebbe bello capire diversi da cosa, o Gesù Cristo sono io, brano che affronta con grande profondità e originalità il tema delle violenze sulle donne, porta un brano importante, che come spesso capita alle canzoni importanti suona bene, quindi è fruibile anche senza collegare troppo il cervello, ma se lo si ascolta con il cervello accesso suona assai meglio. Un brano che credo sia destinato a rimanere, tanto quanto lo è, per dire, l’ultimo lavoro di Halsey, If I Can’t Have Love, I Want Power, nel quale la nostra affronta da par suo il tema del corpo che cambia in gravidanza. So che Levante non è molto incline a vedersi come cantautrice. O, meglio: è una cantautrice a tutti gli effetti, ma ricordo che quando la presero al Sanremo prepandemico, nel 2020, ebbe a dire che non pensava di essere lì in quanto donna, ma in quanto artista il cui talento in sé era stato riconosciuto dal direttore artistico. Ne seguì una polemica a distanza con Michela Murgia rispetto al tema delle quote rosa, ma mai come con Vivo mi è chiaro quanto il cantautorato femminile sia un genere a sé, esattamente come lo è la musica d’autore, non quindi circoscritto da ristrette gabbie stilistiche, come può essere il reggae, il pop, il rock, ma trasversalmente spalmato su generi differenti, solo portato avanti da donne. Perché mai come oggi è evidente come siano le donne, Levante con la sua Vivo ne è chiarissimo esempio, le sole capaci di affrontare determinati temi senza nascondersi dietro pudori o ammiccamenti a quelli che si ritengono erroneamente i canoni della contemporaneità. Viva Levante, quindi, e viva Vivo.

Tag:Sanremo 2023
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