Quarant’anni fa a Sanremo nacque il Premio della Critica, oggi intitolato a Mia Martini. Nacque proprio come tentativo posticcio di mettere una pezza a quelle che un manipolo di giornalisti e critici musicali, guidati da Giò Alajmo, Cristina Berretta e Santo Strati, volevano mettere alle evidenti carenze di chi era preposto a scegliere la vittoria finale, andata a Riccardo Fogli con Storie di tutti i giorni, come abbondantemente anticipato dalla stampa stessa. Secondi Al Bano e Romina, con Felicità. Terzo Drupi, con Soli. La pezza era atta a premiare Mia Martini, in gara con quella che poi sarebbe divenuto un classico della nostra musica leggera, E non finisce mica il cielo, brano scritto per lei da colui che stava diventando il suo ex, Ivano Fossati. In quell’edizione, agli ultimi posti, anche Vasco Rossi e Zucchero, di lì a qualche tempo giganti della nostra discografia. Da quel momento, per anni, la giuria composta dagli accreditati in Sala Stampa ha provato a allestire una giusta contrapposizione alle giurie demoscopiche, ai voti del Totip, a tutte le varie stramberie che gli organizzatori, di volta in volta, hanno scelto per decretare il vincitore, andando a premiare spesso artisti di qualità capitati quasi loro malgrado sul palco dell’Ariston, e quasi mai vincitori reali della kermesse.
Lo stratagemma per arginare l’effetto talent
Veniamo all’oggi. Anzi, agli ultimi anni. La Sala Stampa, già autoproclamatasi giudice morale del Festival col Premio della Critica, è stata coinvolta nel voto, andando a decretare anche nel premio finale una sorta di resistenza al televoto che per qualche Festival ha indubbiamente favorito chi arrivava all’Ariston direttamente dagli studi dei talent, Amici in testa. Dopo il filotto che vedeva vincitori i vari Marco Carta e Valerio Scanu, infatti, sembrava necessario un muro contro muro, vedi che poi vinse Vecchioni, come in passato gli Avion Travel. Così, però, si è creata una anomalia senza precedenti. In Sala Stampa, in tempi di pace, si accreditavano non solo critici musicali e giornalisti specializzati, ma anche inviati di testate generaliste, a volte lontanissimi dall’occuparsi di musica. Tutti dotati di voto e quindi influenti sulla vittoria finale.

Il caso di Ultimo e la vittoria di Mahmood
Chiaramente, non poteva che essere così: avere un potere ha generato una ulteriore dinamica distorta; gli uffici stampa, i medesimi che offrono – così sembra visto come li fanno cadere dall’alto – gli artisti, specie i più ricercati, ai giornalisti, e coi quali hanno un rapporto stretto, hanno cominciato a presenziare sul Roof dell’Ariston, dando vita a una sorta di presidio silenzioso, vagamente minaccioso. Abbiamo visto, negli anni, ribaltoni clamorosi, su tutti la vittoria a sorpresa di Mahmood di quattro anni fa contro il vincitore annunciato Ultimo, sancita proprio dal voto della Sala Stampa, e cui fece seguito il notissimo sbrocco da parte del cantautore di San Basilio. Alle risate di scherno dei senatori del Roof, infatti, determinati nella sua sconfitta, Ultimo rispose con un leggendario: «Avete questa settimana per sentirvi importanti e voi dovete sempre rompere il cazzo».
I rapporti con gli uffici stampa e le case discografiche
Tutto vero, sia riguardo alla settimana di celebrità, le interviste nei talk, quando c’era il Dopofestival, un micropotere spesso usato concordando, a braccio, chi spingere e chi affossare, un peso ulteriore oltre quello blasonato del Premio della Critica Mia Martini, sia sul resto. I balletti sul brano di Mahmood contrapposti agli applausi alla proclamazione solo del terzo posto de Il Volo fecero il resto. Un doppio peso, quindi, lontano dal doppiopesismo, ma comunque viziato da rapporti con discografia e uffici stampa, assai più pericoloso di quanto non fossero le schedine del Totip o i voti da casa, acquistabili in pacchetti da migliaia di voti, ma facilmente controllabili, a livelli di flussi. Noto il caso del trio Pupo, il principe Filiberto e il tenore sconosciuto i cui voti finirono di colpo alla mezzanotte della finale.

Il retroscena della bocciatura di Achille Lauro
Per onestà intellettuale va detto che alle prime due serate nessuna sorpresa è uscita dal voto della Sala Stampa, a partire dal primo posto di Elisa, il secondo del duo Blanco-Mahmood e il terzo di La Rappresentante di Lista via via fino all’ultimo posto di Ana Mena e il penultimo di Tananai. Certo, i primi due sarebbero potuti essere anche in posizione invertita, poco avrebbe cambiato. Colpisce giusto il sedicesimo posto di Achille Lauro, di colpo caduto in parziale disgrazia agli occhi dei giornalisti in Sala Stampa. Il motivo, dicono i bene informati, sarebbe stata una gaffe del suo ufficio stampa, la Goigest di Dalia Gaberschic. Nell’organizzare la classica conferenza stampa presanremese, di questi tempi in remoto, infatti, Dalia ha fatto stare in presenza con l’artista solo i soliti nomi noti, al secolo Luca Dondoni de La Stampa, Andrea Laffranchi del Corriere e Paolo Giordano de Il Giornale. Per intendersi, i giornalisti che solitamente occupano le prime file. In Sala Stampa quest’anno si è molto riso, si dice, per le proteste vibranti fatte dai tre per non avere esattamente quei posti. Giornalisti noti tra colleghi col nomignolo Pool Guys, dopo che anni fa si erano fatti un bel selfie a bordo piscina nel resort di Miami nel quale li aveva invitati a proprie spese Laura Pausini, per la presentazione del suo album Simili. Uno sgarbo che i colleghi non avrebbero gradito e che, non potendo farla pagare ai Trettré, hanno fatto in qualche modo pesare all’artista romano, e non si ripeta più. Tutto sbagliato, in pratica, nel bene e nel male. Forse sarebbe il caso di togliere questo potere nella mani di chi già c’è uno strumento efficace e anche meritorio come il Premio della Critica. O lasciare Ultimo a presidiare, ha l’aria di uno che se necessario è anche capace di menare le mani, lui.