Scrivevo giorni fa che ho trovato singolare che, essendo il Festival di Sanremo un programma sì sui generis, ma comunque trasmesso sulla rete ammiraglia della Rai, non fossero presenti artisti nati tra il 1951 e il 1975, a eccezione della Rettore. Spiego meglio questa mia perplessità. L’età media degli spettatori di Rai 1, già il fatto di poterla definire “rete ammiraglia” ci dovrebbe dire qualcosa, è di 61 anni. Esattamente, quindi, in quella fascia di età snobbata da Amadeus nel comporre il cast. Amadeus che, per intendersi, è del 1962.
Qualcuno ha provato a dire che la scelta di spostare in maniera perentoria il baricentro del cast dei concorrenti in gara verso le nuove, anche nuovissime, leve – Blanco, uno dei due vincitori, è del 2003 come il quinto classificato, Sangiovanni, ma giovani sono parecchi dei 25 cantanti – è un modo per accontentare tutti, cioè inseguire con la perspicacia e l’intuitività del rabdomante le sorgenti nascoste d’acqua. Ma al posto del bastoncino biforcuto ha usato più semplicemente uno smartphone dove ha installato Spotify, sempre al servizio di quei potentati più o meno palesi che rispondono al nome di Friends and Partners (suoi una bella fetta di detti cantanti, i primi cinque in classifica, tra l’altro) e case discografiche varie: due dei primi tre classificati, come anticipato quando si parlava di Manuale Cencelli e di alternanza Universal-Sony, sono della Island, divisione giovane della multinazionale francese, vedi tu che scoperta.

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Amadeus e la furba selezione degli artisti
Anche se i numeri hanno dato evidentemente ragione a Re Amedeo, già convocato ai tavoli per firmare il contratto per il suo quarto mandato, altro che Sergio Mattarella, in realtà l’impressione è che si sia operata un altro tipo di scelta, in apparenza una forzatura, ma comunque una scelta che ha pagato bene. Amadeus è un uomo istituzionale, ben conosce i meccanismi che governano lo share e i palinsesti, quindi, complice una resa incondizionata della concorrenza, e complice il fatto che era al mondo delle piattaforme come Netflix e Amazon Prime che doveva guardare, ha puntato tutto su un folto gruppo di artisti che proprio ai fruitori di dette piattaforme potevano piacere, fregandosene dello spettatore medio di Rai 1. Ha giusto piazzato lì, buon contentino, tre vecchi marpioni come Gianni Morandi, che comunque è fortissimo sui social e si tirava dietro, lo abbiamo ben visto, Jovanotti, vero testimonial della Generazione X e volendo dei boomer, Iva Zanicchi e Massimo Ranieri, ha puntato ai millennial e ai giovanissimi, convinto che chi è abituato a guardare il primo canale non avrebbe certo cambiato proprio quando altrove andava di scena il grande nulla, vuoi per abitudine o vuoi per stanchezza.

Quell’inondazione stucchevole di retorica
In mezzo, cinque ore e passa di programma non possono mica essere disegnate tutte solo sulle canzoni, seppur queste siano tantissime. Così ha messo in scaletta un po’ tutti i protagonisti degli sceneggiati di Mamma Rai. Ditemi voi se in epoca Netflix esiste un altro luogo dove si può parlare di sceneggiati se non in quello dove va in scena anche una kermesse canora, tutte parole da mercatino del modernariato, togliendo ogni qualsiasi spigolo. Nessuna polemica sfiorata, almeno in pubblico, nessun riferimento politico, figuriamoci. Abbiamo assistito invece a una inondazione pelosa e anche piuttosto stucchevole di retorica, dal monologo sul razzismo a quello sull’inclusività, da quello sull’unicità a quello sulla gentilezza. Frizzi e lazzi, spesso da villaggio turistico, quella è la matrice da cui in fondo Amadeus indirettamente arriva, offerti dalla casa. Un piano perfetto, sembrerebbe. Chi vince ha ragione, i libri di storia lo dicono, non solo esplicitamente. Anche in virtù di nomi, nel cast, che comunque hanno un seguito forte, portano numeri, i vincitori, che nella logica sanremese hanno meritato, sono blockbuster, specie Blanco, come sono blockbuster Elisa, Sangiovanni, Rkomi e tanti altri. Comprimari di qualità, La Rappresentante di Lista, Giovanni Truppi, Ditonellapiaga, a impreziosire il quadro.

Il più patriarcale dei conduttori
In questo quadro d’insieme – la furbizia di guardare al nuovo, con gli artisti, la certezza della permanenza paralitica degli spettatori tipo, trattenuti dal contorno più che dal piatto principale, rassicurati dalla medietà dello spettacolo presentato e anche dei contenuti extramusicali, in perfetta linea con l’oggi – quello che spiazza è aver sposato in tutta la linea una certa fluidità di fondo. Perché a farlo, vuoi o non vuoi, è proprio il presentatore più palesemente patriarcale di questa cavalcata di Rinascita sanremese che parte da Fabio Fazio, passa per Carlo Conti e con il guizzo di Claudio Baglioni arriva fino a oggi, ad Amadeus. Quello, lo abbiamo già detto, che pensa che le donne debbano stare un passo indietro, che quando poi se le porta a fianco, spesso senza farle parlare, vedi la lettura delle classifiche, sottolinea come siano lì perché eccezionali, hanno studiato, sono intelligenti, sulla bellezza si era soffermato anche troppo l’anno scorso. Quello che ha faticato a capire che dare i fiori ai maschi era un gesto, simbolico, proprio di inclusività e di equiparazione sessuale, non una carineria nei confronti delle fidanzate e mamme dei maschi. Bene ha fatto Grignani a dirgli: «ti leggo la paura negli occhi a darmi i fiori».

L’evidente difficoltà di Amadeus davanti alla fluidità
Insomma, Papa Amedeo III, presto Papa Amedeo IV. A parte la vittoria di Mahmood e Blanco con un brano che è una canzone d’amore cantata per la prima volta a Sanremo da due uomini, tutto il Festival 2022 è stato costellato di passaggi che alla fluidità fanno riferimento: dal bacio scherzoso sulla bocca disegnata sulle mascherine tra Amadeus e Coletta, sempre in prima fila a godersi questa esternazione arcobaleno, alla presenza nel cast di personaggi anche giovanissimi che di quel mondo sono diventati giustamente riferimento – la tematica LGBTQ+ è insita nel codice genetico dei millennial, viva Dio – passando per il passaggio centrale di Drusilla Foer, vera mattatrice delle co-conduttrici. A vederlo, lì sul palco dell’Ariston tra abiti fluo, trucchi e gioielli imperiali, tutti esibiti da uomini, lui con un mazzo di fiori in mano, in evidente difficoltà, anzi, come a non aver capito come ci sia in effetti capitato in mezzo, mi è tornata alla mente una scena di un vecchio film, neanche troppo divertente, di Massimiliano Bruno, Viva L’Italia. In un passaggio, da solo in grado di risollevare le sorti del film, un Rocco Papaleo particolarmente inspirato si trova in una festa con una presenza prevalentemente omosessuale. Il personaggio che Papaleo interpreta è quello del manager della figlia di un politico importante, Viva l’Italia racconta la storia di questo politico che, malato, di colpo comincia a dire esattamente quello che pensa, scatenando l’inferno.
La figlia del politico – lui Michele Placido, lei Ambra Angiolini – è palesemente un cane a recitare, balbetta, è ingoffita, lavora solo in quanto privilegiata per via del genitore influente. Rocco Papaleo, il manager, gay, non se la vive benissimo, perché è ben cosciente di avere nel suo roster una vera incompetente, ma tiene botta. Solo che, arrivato a questa festa, qualcosa scatta, e all’ennesimo tentativo di portarlo in pista a ballare esplode in questo monologo – probabilmente oggi, in epoca di politicamente corretto, improponibile – che riporto invitandovi a pensarlo in bocca a Amadeus, su quel palco, gli occhi fissi sul direttore di rete Coletta, seduto come sempre in prima fila, di fianco alla moglie del presentatore Giovanna e al loro figlio Josè: «Basta! Io non sono un ricchione, ho sempre fatto finta In questo Paese per lavorare devi far parte di una lobby e io sono entrato nella lobby dei ricchioni. Ma io non sono ricchione, a me mi piace il triangolo delle Bermude. W la fregna». Ecco, per quest’anno da Sanremo è tutto. W Amadeus. W Mahmood e Blanco. Viva l’inclusività. W la fregna.