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Il Salone del Mobile a Milano e il funerale di mio padre a Moltrasio: il racconto della settimana

C’è il Salone e dopo due anni di silenzio sembrano tutti impazziti. Alla serata dalla quale trasmettiamo non è facile entrare, ma vedo che anche questa volta ci sono tutti. Cerco di togliermi dalla testa il funerale di mio padre, bevendo un paio di Moscow Mule. Il racconto della settimana.

11 Giugno 2022 10:052 Gennaio 2023 12:59 Andrea Frateff-Gianni
Salone del mobile e il funerale di mio padre

«A trecento su una Mase Levante, non la cantante», canta Marracash, mentre, di ritorno da Ginevra, siedo di fianco a mio cugino Giorgio, a bordo di una Maserati Levante nuova fiammante, con le ceneri di mio padre nel portabagagli. Partito ieri, dopo il turno di mezzogiorno alla Belle Aurore, mi sono tolto il grembiule e, direttamente da via Castel Morrone, sono saltato sulla macchina del cugino, che si è gentilmente offerto di accompagnarmi a risolvere questa questione che avevo in ballo da troppo tempo. Anche se il testamento – invalidato – stabiliva che i figli avessero dovuto disperderle in mare, a largo dell’isola di Hydra (dove andava spesso in vacanza), dopo la sua morte, le ceneri di mio padre furono messe in un sacchetto e, dato che nessuno volle fossero custodite nella tomba di famiglia di mia madre al Cimitero Monumentale di Milano, furono spedite e depositate temporaneamente in una cassetta di sicurezza al Credit Suisse di Ginevra.

Così ieri finalmente siamo andati a prenderle e, dopo essermi ubriacato di vodka al banco del bar dell’Hotel Richemond dove ci siamo fermati a dormire, eccomi qui, in pieno hangover, vestito tutto Tommy Hilfiger, con ai piedi un paio di mocassini Giorgio Armani, alla volta del cimitero di Moltrasio dove, dopo un eterno conciliabolo familiare, è stato deciso di sistemarlo definitivamente, nella cappella Serbelloni. La cappella, è una piccola chiesa in realtà, di granito grigio, totalmente anonima fuori, discreta dentro, tanto che perfino sulle lapidi non ci sono foto ma solamente i nomi. Arrampicata a mezza costa, a quasi 300 metri, domina tutto il golfo sul lago. La cappella è un po’ il supremo ma ultimo segno del potere, vi sono sepolti 14 Serbelloni e oggi, in questo afoso e lucente pomeriggio di giugno, vi entra il 15esimo, che Serbelloni non è ma solamente il capostipite di questa dinastia, folgorante e folgorata, che siamo noi Frateff-Gianni. Verrà sistemato di fianco a sua sorella Marta Zena, di fronte a sua zia Zhora, probabilmente la persona che nella vita gli ha voluto più bene.

La cappella è un po’ il supremo ma ultimo segno del potere, vi sono sepolti 14 Serbelloni e oggi, in questo afoso e lucente pomeriggio di giugno, vi entra il 15esimo, che Serbelloni non è ma solamente il capostipite di questa dinastia, folgorante e folgorata, che siamo noi Frateff-Gianni

Splende il sole su Moltrasio nel giorno dell’addio a Kico. Splende e fa brillare la chiesa dedicata ai Santi Martino e Agata, come tre anni fa, in un altro pomeriggio, sempre di giugno, quando si celebrarono le esequie dello zio Nando. Anche se l’atmosfera rispetto ad allora è molto diversa. Non c’è tutta quella gente, non ci sono le musiche dell’Ave Verum di Mozart, che hanno accolto in chiesa il feretro dello zio, arrivato dalla Svizzera, coperto da un cuscino di rose bianche e rosa, e ranuncoli e miosotis, e non c’è nessun minuto di silenzio in paese, come invece accadde allora. È un addio privato quello che si celebra oggi, davanti alla cappella Serbelloni. A presenziare alla cerimonia laica siamo circa una decina di persone, la royal family, o il poco che ne resta, più un piccolo gruppo di miei amici. C’è mio fratello Stefano, uscito da poco dalla clinica, con la sua fidanzata Priscilla. Ci sono i miei cugini, Giorgio e Gianmario. C’è Ofelia, arrivata da Milano, con sua sorella Cleopatra. C’è Alb, il mio socio radiofonico, e ci sono Silvio e Nosama, con i suoi genitori, Kinka e Linda. Moltrasio sprizza ancora Serbelloni da ogni muro, anche se da qualche anno di Serbelloni non c’è n’è più nemmeno l’ombra, sostituiti da oligarchi russi e divi del cinema di Hollywood. Resta solo, troneggiante, lo stemma di famiglia sulla villa, passata di proprietà e ancora sfitta, a rimembrare i tempi che furono.

 

Salone del mobile e il funerale di mio padre
Moltrasio.

[Macherio, settembre 2021. «Vorrei, una volta che non ci sarò più, che le mie ceneri fossero disperse nell’Egeo, al largo dell’isola di Hydra», mi ha detto l’estate scorsa mio padre, mentre, uno di fronte all’altro sull’enorme terrazzo di casa sua a Macherio, ci dividevamo una bottiglia di birra ghiacciata e io, in bermuda e a petto nudo, abbronzatissimo, ero appena tornato dalle vacanze, trascorse con Ofelia a Naxos. «Pensavo volessi farti disperdere a Portofino, papà», ho risposto io, con noncuranza, mentre mi accendevo l’ennesima sigaretta, senza togliermi gli occhiali da sole. «Effettivamente ho passato molto tempo a Portofino. Tra la piazzetta, la Calata Marconi, le ville sul promontorio e alcuni appartamenti con vista sono racchiusi molti ricordi piacevoli e divertenti. A Portofino ricordo il grande attore Rex Harrison. Aveva un castello, fu costretto a venderlo. Si chiudeva alla Gritta, sulla Calata, a bere in continuazione. Restava a trangugiare whisky insieme con il vecchio Raggio, il proprietario del locale, il papà di Maurizio, per nove o dieci ore di fila. Alla fine le mogli arrivavano a prenderli e li portavano via di peso. A Portofino c’era anche Carlino Scognamiglio, nel 1994 è diventato presidente del Senato», mi rispose mio padre, ma poi iniziò a raccontarmi di Hydra, senza interruzioni e fissando il vuoto. «Devi sapere, Andrea, che Hydra è stata, nel corso della seconda metà del Novecento, teatro di vacanze chic e artistiche allo stesso tempo. L’isola fece da cornice a una delle storie d’amore più idealizzate e più famose della storia della musica, quella fra Leonard Cohen e Marianne Ihlen, per non parlare degli anni seguenti in cui divenne un vero punto di ritrovo del jet-set internazionale. Le spiagge, i locali con terrazze sul mare erano i posti giusti per incontrare Jackie Onassis e Aristotele, Mick Jagger, Keith Richards oppure Elizabeth Taylor e Richard Burton. Il più simpatico era Onassis, il quale parlava benissimo anche l’italiano, a causa di Maria Callas, ed era, nel suo genere, praticamente perfetto. Mi innamorai di Hydra nell’estate del 1975, in vacanza con tua madre. Era così selvaggia, dal mare di un colore così unico, e poi era così tremendamente diversa da Saint-Tropez e da Montecarlo, che capii subito che quella sarebbe diventata il mio paradiso. Non ci sono a Hydra le case bianche e cubiche delle Cicladi, ma eleganti archontika, dimore patrizie in pietra grigia, frutto dei proventi dei mercanti-pirati che tra Sette e Ottocento resero la flotta idriota rivale delle più grandi potenze marinare dell’epoca, tanto che si permise, durante le guerre napoleoniche, di forzare il blocco navale britannico. Yacht e catamarani dondolano sotto le reti da pesca e, a uniformare il tutto, ci sono frotte di gatti di ogni taglia, colore e striatura, miagolanti, ammalianti e assedianti che si dividono il territorio con asini dagli occhi dolci che risultano essere il migliore mezzo di locomozione dell’isola. C’è una vecchia foto, dove io e Renata siamo ritratti su due di questi asini, quando la guardo penso che forse quello è uno dei momenti dove sono stato più felice nella vita». Papà poi distolse lo sguardo, con gli occhi lucidi, e io mi sorpresi ad osservarlo, con la camicia azzurra aperta sul petto e i pantaloni blu con le pince, con una specie di malinconia che probabilmente non avevo mai provato prima. Aveva già 95 anni.]

Salone del mobile e il funerale di mio padre
La vacanza a Hydra.

 

Di mio padre potrei scrivere per giorni. La storia di un uomo dalle mille vite che ha avuto tutto e perso tutto, con il quale ho passato più tempo negli ultimi mesi prima che morisse che in tutti i precedenti anni della nostra vita. Chissà perché però adesso, mentre sono bordo di un motoscafo in legno simile alle limousine taxi veneziane, sulla strada del ritorno diretto verso Como con il sole in faccia, mi vengono in mente solamente questi due aneddoti: quando una volta da ragazzo mi insegnò a prepararmi la valigia e quando un’altra volta, casualmente sempre di ritorno da Moltrasio, mi raccontò delle sue mirabolanti avventure al tavolo da gioco, perfetta allegoria della sua intera esistenza vissuta sempre al limite. Ma andiamo con ordine.

 

[Milano, marzo 1996. Non vedo mio padre da tipo quattro anni, e adesso sono qui, davanti alla Stazione Centrale, all’arrivo dei pullman dalla Bulgaria, che lo aspetto. Dopo un lungo periodo di latitanza a Parigi pare che papà da qualche tempo si sia trasferito a Sofia, ospite di un suo cugino, in via Krivolak 33. So che questa cosa non devo dirla a nessuno, me l’ha detta in via confidenziale il suo socio, il dottor Arditi, dal quale vado una volta al mese in un appartamento in via Vallazze a ritirare 700 dollari per il mio sostentamento. Cinquecento li consegno a mia zia Pia, 200 sono per me, per le mie spese personali. Ogni tanto, quando il dottor Arditi non c’è, ritiro un pacco al Baretto in via Sant’Andrea, dove dentro una scatola di scarpe trovo sempre 700 dollari, che una volta arrivato a casa divido con mia zia Pia nel solito modo. Il dottor Arditi settimana scorsa mi ha detto che mio padre sarebbe arrivato oggi e, dato che non può prendere l’aereo, viaggerà con questo benedetto pullman, che potrebbe arrivare tra le tre del pomeriggio e le nove di sera. Così eccomi qui che lo aspetto, già da un paio d’ore, gironzolando senza meta davanti alla Stazione, in quel tratto che incrocia via Pergolesi con via Soperga. Dopo quattro ore di estenuante attesa finalmente il pullman con la bandiera bulgara si parcheggia nel piazzale e dopo un po’ vedo scendere mio padre, con un paltò blu, la barba lunga e una piccola borsa nera che immagino sia il suo bagaglio. L’ultima volta che ci siamo visti sono sceso dalla sua BMW davanti a Palazzo Fidia e avevo 12 anni, oggi ne ho 16 e sto ripetendo la prima classe al liceo scientifico Alessandro Volta, in via Benedetto Marcello. Quando lo vedo mi si blocca il cuore, poi gli corro incontro, lo abbraccio e gli chiedo: «Come stai papà?», prima di salire su un taxi e andare verso casa di mia zia. Uno di fianco all’altro, sul sedile posteriore della mercedes gialla mentre lo osservo mi rendo conto di trovarlo incredibilmente invecchiato.]

In quel viaggio in taxi mio padre mi spiegò ‘la regola del bagaglio giusto’. Credo che a oggi sia l’unica cosa che mi ricordo mi abbia insegnato mio padre

In quel viaggio in taxi mio padre mi spiegò ‘la regola del bagaglio giusto’, rispondendo alla mia domanda su quanto si sarebbe fermato e come avrebbe fatto con i vestiti con dietro solamente una borsa così piccola. «Vedi Andrea, adesso ti spiego come fare una valigia per poter stare fuori tranquillamente un mese. Dopo aver indossato un completo come quello che vedi, che quindi fa parte a tutti gli effetti del corredo, stando attento a scegliere una giacca doppiopetto, o monopetto se preferisci, in stoffa di alpaca, o in frescolana, in modo che possa andare bene sia d’estate che d’inverno, in valigia ti basta mettere: una camicia bianca, una camicia scura, una camicia a righine, una cravatta scura, due paia di calzoni, uno chiaro e uno blu scuro, un paio di scarpe marrone scuro, quindi né nero né marrone, e ovviamente un pigiama per la notte. Con questa dotazione si può tranquillamente stare fuori casa almeno un mese e si può andare dappertutto, sia alle feste che alle occasioni sportive. Un altro comodo vantaggio di questo tipo di bagaglio è che lo si può portare con sé a bordo dell’aereo, perché se lo imbarchi e te lo caricano nella stiva può accadere che te lo smarriscano, che te lo rubino o, per bene che ti vada, che tu stia a lungo ad aspettarlo all’arrivo, perdendo tempo prezioso». Credo che a oggi sia l’unica cosa che mi ricordo mi abbia insegnato mio padre.

Papà era un giocatore alla Dostoevskij, un autentico masochista del gioco che come tutti i veri giocatori non amava né vincere né perdere. O, almeno, amava vincere ma amava ancor di più perdere e soprattutto amava ogni volta, disperatamente, trovare il denaro per poter continuare. Come accade a tutti i veri giocatori solo la roulette sa dare loro il brivido, solo i numeri riescono a suscitare la cosiddetta attrazione fatale, e fu per questo motivo che mio padre per molti anni fu un grande frequentatore di casinò, da Campione a Sanremo, ma soprattutto un habitué di quello di Montecarlo.

Papà era un autentico masochista del gioco che come tutti i veri giocatori non amava né vincere né perdere. O, almeno, amava vincere ma amava ancor di più perdere e soprattutto amava ogni volta, disperatamente, trovare il denaro per poter continuare

[In autostrada, un inverno del 1990. Di ritorno da Moltrasio, è sera, fuori dal finestrino mentre sono a bordo della BMW di mio padre osservo le luci della strada e i fari delle altre macchine mentre lo ascolto mentre mi racconta di sé, mentre mi narra di feste a Cannes o a Venezia, di cene a Beirut, di serate a Cortina o a Gstaad o mentre mi parla dei fantastici viaggi che faceva con mia madre in giro per il mondo, nei migliori posti e nei migliori alberghi in circolazione. «Qual è il miglior albergo dove sei stato?», gli chiedo a un certo punto. «Forse il Beverly Hills Hotel di Los Angeles, ero negli Stati Uniti per lavoro e ci finii casualmente durante una festa di Playboy, un giornale specializzato in belle ragazze diciamo, quella hall piena di “conigliette” non la posso dimenticare. Ma quella volta non ero con tua madre. La passione di tua madre invece era l’Hôtel de Paris a Montecarlo, ci andavamo spesso e lei lo adorava, nonostante io passassi tutte le sere al casinò. Solitamente perdevo ma una volta ho fatto una grossa vincita alla roulette e ricordo che la mattina seguente scesi immediatamente da Cartier e le regalai un grosso bracciale e comperai anche un orologio per me. Poi pagai l’hotel e chiusi l’operazione, nel senso che in seguito non puntai per tutto il soggiorno più un solo franco. Non sono mai più stato in grado di fare un simile colpo. La sera prima assistetti alla più straordinaria ed entusiasmante partita alla roulette che vidi in vita mia. Ricordo che su un lato del tavolo c’erano due giovani pakistani sui 35 anni d’età. Di fronte a loro un signore inglese, di circa 50 anni, insieme con la moglie. I due giocavano un milione di franchi a colpo, l’inglese da solo giocava due milioni a colpo, quindi sul tavolo c’erano tre milioni di franchi per ogni giocata, quasi 900 milioni di lire di allora. Ricordo che nella sala del casinò si rumoreggiava parecchio, tutti volevano sapere chi fossero quei misteriosi giocatori e ricordo che a un certo punto qualcuno disse che i pakistani erano proprietari di alcune miniere nel loro Paese e l’inglese un broker di aziende che operavano in America. Io non avevo mai visto una partita con una simile potenza di fuoco, ricordo che quando il croupier fece i conti alla fine, l’inglese aveva vinto 5 milioni di franchi e i pakistani ne avevano persi 9 in totale. In ogni modo mai avevo visto una roba del genere alla roulette. Una volta mi capitò però una cosa simile assistendo a una partita a chemin de fer. Devi sapere che nell’agosto del ’74 tutte le sere al Casinò di Cannes c’era il più grande tavolo di chemin di tutta la storia. A fronteggiarsi erano quattro grandi giocatori: Adnan Kashoggi, Ibn Saud, fratello del re dell’Arabia Saudita, un uomo d’affari inglese di cui non ricordo il nome e il barone belga Empain. Le loro partite duravano sempre fino alle otto, talvolta fino alle dieci del mattino seguente. Si respirava una tensione incredibile».]

E questo racconto è solo un esempio che spiega il motivo per il quale all’epoca a 10 anni quando guardavo mio padre vedevo un’essere sovrannaturale, che potevo paragonare a Dio, o al massimo a James Bond. Poi crescendo ho capito che Kico era più simile a Le Chiffre piuttosto che alla spia inglese al servizio di sua maestà, ma questa è un’altra storia.

«Ma secondo te, riusciremo mai a uscire da questo terribile format ormai strasuperato che prevede sempre la solita accoppiata dj/prosecchino?». «È una festa spaziale amico», dico espansivo. «Temevo ti sarebbe piaciuta, a me sinceramente sembra l’ennesimo locale disegnato da Philippe Starck», sospira Laps

Al segnale partono le note del nuovo disco di Kendrick Lamar e sono di nuovo a Milano di fianco ad Alb, il mio socio radiofonico, nello spazio industriale di un miliardario di San Marino , in onda in FM con la nostra trasmissione che dovrebbe raccontare la Design Week milanese. Perché sì, in città c’è il Salone e dopo due anni di silenzio sembrano tutti impazziti. Alla serata dalla quale trasmettiamo non è facile entrare se non sei noi anche se dalla mia postazione vedo che pure questa volta ci sono tutti. Nel mucchio potevi riconoscere: Roffredo e la sua ultima fidanzata bulgara, Zorny, la Michi e ad Ale Cash, Yuri Ancarani, Paola Manfrin, Victoria Cabello, Caroline Corbetta, Luisa Bertoldo, Francesco Mandelli, Federico Russo, e altre ex star di Mtv più gli amici di Older, Davide Giannella, Delfino Sisto Legnani e Chicco & Laps di Altogracile. La sensazione dalla mia postazione è che nello spazio industriale si stia svolgendo “un altro gigantesco evento mediatico” con gli inevitabili furgoni delle troupe parcheggiate davanti, transenne, gente che spinge e ragazzini che ci guardano pensando: «È così che vorrei essere, è così che voglio diventare». Quando chiedo ad Alb l’identità dell’industriale miliardario mi dice che finanzia certe guerre e che è anche un alcolista “moderato”. Sembra di essere dentro un libro di Bret Easton Ellis. Considerando che il Bar Basso ha rotto il cazzo, se Alcova, il nuovo distretto creato da Valentina Ciuffi all’ex ospedale militare di Baggio è stato ancora una volta Place to Be durante questa edizione del Salone e la festa organizzata da Toilet Paper da Maurizio Cattelan & Pierpaolo Ferrari in via Balzaretti è stata in assoluto la più incredibile, questa serata, nello spazio industriale del miliardario di San Marino, è assolutamente allo stesso livello. Tutti vestono Gucci e bevono birra Tsingtao e dopo la nostra diretta c’è un dj set dei Too Many dj’s. Così, cercando di togliermi dalla testa il funerale di mio padre, una volta finita la diretta decido di bere un paio di Moscow Mule e mi siedo a un divanetto color lime sotto uno scalone d’acciaio, in compagnia del mio amico Laps di Altogracile, che sembra JFK, circondati da fiori bianchi, con un enorme orologio digitale che brilla nel buio e proietta l’ora sul soffitto. Io e Laps ci accendiamo le sigarette a vicenda mentre alcuni paparazzi di nessun conto scattano foto a chiunque. «Grazie Andrea», dice Laps, soffiando via il fumo. «Ma secondo te, riusciremo mai a uscire da questo terribile format ormai strasuperato che prevede sempre la solita accoppiata dj/prosecchino?». «È una festa spaziale amico», dico espansivo. «Temevo ti sarebbe piaciuta, a me sinceramente sembra l’ennesimo locale disegnato da Philippe Starck», sospira Laps. Poi la serata prosegue.

*I nomi e i fatti narrati sono frutto di fantasia.

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