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Divani e di vini

Elogio della lentezza

Il design non è come la moda. Eppure negli anni ne ha assunto le tempistiche ed è stato un boomerang. Ora, con ritmi diversi e una maggiore attenzione alla sostenibilità, si bada di più alla longevità e alla qualità del prodotto. Intervista a Luca Nichetto.

8 Settembre 2021 12:278 Settembre 2021 13:25 Matteo Innocenti
L'intervista esclusiva all'eclettico progettista e designer Luca Nichetto durante la sua partecipazione al Salone del Mobile.

Classe ‘76, Luca Nichetto è un designer diviso tra i due Paesi della sua vita. Professionale e non. L’Italia, in particolare Venezia dove ha fondato il primo studio nel 2006, e la Svezia, dove si è trasferito per amore e dove ha aperto il secondo studio a Stoccolma nel 2011. Partito dalla progettazione dell’oggetto, non si è posto mai limiti, sperimentando con successo nell’interior design e nell’architettura. Oggi è uno dei designer italiani più apprezzati all’estero, come testimoniano i numerosi premi internazionali vinti nel corso della carriera. «Sono rimasto praticamente bloccato in Svezia per un anno e mezzo, da quando la pandemia è scoppiata è la prima volta che scendo in Italia», ha spiegato a Tag43.

 

DOMANDA. La pandemia come ha cambiato il suo lavoro?
RISPOSTA.
Avendo due uffici a Venezia e Stoccolma, per me lavorare in remoto non è stata una novità. È cambiata la parte di sviluppo prodotto e non ci sono stati più i viaggi che facevo settimanalmente, dunque abbiamo dovuto trovare soluzioni alternative, come i progetti presentati in call.

D. È stato difficile?
R.
Devo dire che, tutto sommato, questo momento di blocco totale non è dispiaciuto. Mi ha permesso di poter ritornare in studio, apprezzando di più il lavoro che faccio. Prima del Covid, senza accorgermene, ero entrato in una sorta di centrifuga, perennemente sballottato tra eventi, clienti, visite di ogni tipo. Preferirei non tornare a quel tipo di vita lì.

D. La pandemia ha cambiato anche il mondo del design?
R.
Sì, in effetti è aumentato l’interesse per l’ambiente. Per quanto mi riguarda, in Svezia c’è da tempo questa attenzione per sostenibilità e life cycle del prodotto. Se ne parlava già 15 anni fa. Sicuramente il Covid è stato un acceleratore, soprattutto per aziende non scandinave che adesso sono più attente a questo aspetto.

D. E per quanto riguarda le tendenze?
R. Il design viene assimilato alla moda e ne ha assunto le tempistiche, benché abbia un tipo di consumo diverso. Negli anni scorsi ha in qualche modo sofferto di questa smania di lanciare prodotti, con scadenze e un calendario di eventi sempre più fitti. Che per il comparto del design sono un boomerang: in fondo, non si compra certo un divano ogni tre mesi. I prodotti e il modo di acquistarli è talmente diverso: il sistema stava implodendo, con le aziende più strutturate che obbligavano i retailer a comprare i prodotti, vivendo più di sell in che di sell out.

D. La qualità ne ha risentito?
R
. Certamente. C’è stato un abbassamento della qualità, perché la rapidità non permette di lavorare in un certo modo. Adesso, con ritmi più lenti e una maggiore attenzione alla sostenibilità, si bada di più alla longevità del prodotto, al fatto che possa al tempo stesso costare il giusto e assicurare una durata di 20,30, perché no di 40 anni. Tutto questo sta apportando benefici all’artigianato e manifatturiero.

Il design viene assimilato alla moda e ne ha assunto le tempistiche, benché abbia un tipo di consumo diverso. Negli anni scorsi ha sofferto di questa smania di lanciare prodotti, con scadenze sempre più fitte

D. Sarebbe auspicabile una cadenza diversa per il Salone del Mobile?
R.
Sì. Se il Salone fosse biennale darebbe respiro al comparto, permettendo di innovare, senza saturare al tempo stesso il mercato con nuovi prodotti. Certo, va detto che dal punto di vista sociale è importantissimo: l’energia che si crea con le persone durante un evento del genere non è quella che nasce parlando davanti a uno schermo.

D. Nel corso della carriera lei ha sperimentato molto.
R.
Mi è sempre piaciuto essere eclettico, come progettista e designer. Essendo cresciuto in Italia, inizialmente il mio core business era l’arredoluce. Poi negli ultimi anni, anche prima del Covid, ho cercato di spaziare di più, facendo incursioni anche nella moda, oppure disegnando edifici in Cina o vetrine per Hermes. Questi percorsi diversi mi danno la possibilità di applicare la creatività in spazi differenti, costruendo ponti tra un mondo e l’altro.

D. A proposito di mondi diversi, i suoi progetti sono influenzati dal design scandinavo?
R.
Ho sempre fatto scelte di vita e non solo professionali. Ad esempio, ho aperto lo studio a Venezia e non a Milano, semplicemente perché mi trovavo bene lì. Appena arrivato in Svezia ho assorbito il dna scandinavo nell’approcciare il prodotto e il progetto. Poi, il fatto di essere comunque un immigrato, in un Paese culturalmente diverso, ha spinto ancora di più la mia italianità. Insomma, nel progettare sono più italiano adesso, rispetto a qualche anno fa. Chiaramente la Scandinavia mi ha dato tutta una serie di nozioni che non avevo. Ma se rimaniamo all’estetica, viene fuori la mia anima italiana.

L’empatia che un oggetto può creare con chi lo utilizza si genera grazie all’emozione che questo pezzo porta con sé

D. Lei ha detto: «La funzionalità così come l’emozione sono fondamentali per rendere un progetto completo». Che emozioni può trasmettere un pezzo di arredamento?
R. Sedersi, bere, e così via. Per la pura funzione basta un oggetto anonimo. Ma l’empatia che un oggetto può creare con chi lo utilizza si genera grazie all’emozione che questo pezzo porta con sé. La componente emozionale, che va dall’estetica al tipo di lavorazione, fino al materiale utilizzato, per me è molto importante. E non si può descrivere, dipende anche dalle persone.

D. C’è stato un pezzo di arredamento o design che l’ha emozionata in modo particolare?
R.
Non c’è stato effettivamente un prodotto specifico che mi ha emozionato, ma è stata l’arte vetraia della mia Murano a spingermi verso il design. Mio nonno lavorava in fornace, mia madre decorava il vetro. Ho avuto la fortuna di nascere in un’isola che è una sorta di manifesto del primo approccio del design: il progetto che diventa oggetto. L’emozione che si prova assistendo alla lavorazione del vetro, con tutte le skill messe in atto per dare vita a una tua idea, non ha paragone.

D. Concludiamo con una domanda classica: i prossimi progetti?
R.
Da marzo sono art director di Wittmann, azienda austriaca per cui sto facendo un lavoro di riposizionamento, allo scopo di portarla a essere più contemporanea, coinvolgendo designer internazionali. Ho altri progetti con Ginori, per cui ho firmato una collezione di home fragrance in mostra qui al Salone. Poi sto lavorando con due brand americani, di cui non posso rivelare il nome: per uno sto disegnando uno strumento musicale, per l’altro borse da donna vegane, realizzate con materiali come mela o cactus. Infine, un’altra cosa importante: ad aprile 2022 è in uscita una monografia sul sottoscritto, a cui tengo molto.

Tag:Salone del Mobile
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